bbadv-unicredit-articolo-copertina

UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK

UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK

L’annuncio è arrivato Venerdì 3 Maggio e in poche ore è diventata notizia discussa in numerosi gruppi di marketing digitale.  Passo falso o innovazione? Il web si spacca schierandosi per l’una o per l’altra previsione.

Un fulmine a ciel sereno.
Probabilmente per molti non è stata una notizia degna di nota ma, per gli addetti ai lavori, è l’input perfetto per infuocare le community durante tutto il weekend.

Unicredit, attraverso un post su Facebook, ha annunciato che a partire dal 1 Giugno 2019 abbandonerà definitivamente i canali social – specificando Facebook, Messenger e Instagram – in favore di strumenti proprietari.

 

La motivazione, che pure meriterebbe comprensione e consenso, pare in realtà nascondere altro. 

 

Valorizzare i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato e di alta qualità

Nel giro di poco più di 15 minuti il post è stato condiviso in almeno 7 gruppi a cui sono iscritto.
Immediatamente si sono create due fazioni.
Da una parte i nobili paladini di una scelta che apparentemente vuole tutelare i dati sensibili dei propri correntisti, dall’altra i detrattori di una scelta poco lungimirante e anacronistica.

 

Ho sentito immediatamente il desiderio di scrivere qualcosa al riguardo ma mi sono concesso 48 ore per riflettere a fondo su una questione più complessa di quel che i social media manager di Unicredit vorrebbero a mio avviso far percepire. 

 

LA MOTIVAZIONE

Un testo sibillino, formale ed equilibrato ma che nasconde quasi certamente riflessioni aziendali lungimiranti.
Uno di quei testi pensato e pesato più volte con il desiderio di dire una verità fastidiosa ma elegantemente, magari lanciando un messaggio a qualcuno.

 

Valorizzare i canali digitali proprietari […]

Unicredit abbandonerebbe i social network per dare maggior peso alle proprie app e ai canali di comunicazione sviluppati.
Mi pare legittimo che una società che investe ingenti risorse nello sviluppo di strumenti di customer care e che compie sforzi enormi per tutelare la privacy e la massima sicurezza nelle operazioni online, voglia accendervi i riflettori e veicolare quanto più possibile l’attenzione dei suoi correntisti, inducendoli a utilizzarli e trovarvi risposte esaustive ad ogni dubbio.

A onor del vero un correntista che ricorre ai social per mettersi in contatto con la sua banca, potrebbe cadere preda delle ads e dei contenuti promossi da altri istituti bancari. Per questo ha senso cercare di spostare gli utenti su “porti più sicuri”.

[…] per garantire un dialogo riservato e di alta qualità”. È la parte più interessante del post.

Da una parte è vero che Facebook è stata oggetto di ben note vicende relative all’illegittima dispersione di dati sensibili dei suoi utenti (Dopo l’F8, però qualcosa sta cambiando, approfondisci qui).
Proprio a seguito dello scandalo Cambridge Analytica, l’amministratore delegato di Unicredit Jean Pierre Mustier aveva annunciato che la sua società avrebbe interrotto qualsiasi attività promozionale sul social.

Credo però che per dialogo riservato, nel post si faccia riferimento ad una prassi che ho potuto constatare sbirciando tra i commenti ai post della pagina.

 

Qualsiasi post pubblicato sulla pagina, che faccia riferimento ad eventi musicali, istruzioni per la compilazione di moduli bancari o eventi sportivi o culturali di cui Unicredit è sponsor, ecco che decine di correntisti ne approfittano per muovere pubblicamente lamentele sulla qualità dei servizi (aggiornamenti app, call center, ricevimento in filiale) o per richiedere assistenza rispetto a talune funzioni dell’home banking o procedure bancarie.

In alcuni commenti si evince chiaramente che molti utenti scrivono senza rendersi conto della differenza che intercorre tra un messaggio privato e un commento, rischiando – ma non escludo che sia accaduto in post al di fuori della mia veloce ricerca – di fornire dati sensibili e delicati, o peggio codici di sicurezza, a chiunque leggesse i commenti.

Sappiamo benissimo infatti che l’utilizzo dei social è uno degli argomenti più controversi dei nostri tempi e non sono affatto poche le persone che non hanno ancora compreso fino in fondo quanto pericolosi possano essere i social network e quanto influenzino la vita reale.

La vita del team che gestisce la pagina non deve essere semplice. In uno scenario come questo, i social media manager di Unicredit devono essere molto aziendalisti, esperti delle procedure e di tutti gli strumenti bancari, con conoscenza profonda di tutti i servizi e prodotti. Insomma, non certo qualcosa di scontato per un social media marketer.

Posso dunque immaginare che garantire un’assistenza social veloce ed esaustiva costringa la Banca ad affidare le interazioni a personale estremamente qualificato, con ingenti investimenti.

Tuttavia, non pare ottenere risultati che giustifichino lo sforzo. I commenti infatti sono ricchi di critiche e lamentele riguardo i servizi. Problemi che andrebbero discussi privatamente, al telefono con un operatore specializzato. Invece ogni sciocchezza diviene motivo di scontro pubblico.

Certo non la miglior pubblicità possibile.

Ecco dunque cosa – probabilmente – vuol dire “dialogo riservato e di alta qualità”.

Parafrasando potrebbe suonare più o meno così.

“basta sbandierare qualsiasi problema ai quattro venti, per fare assistenza efficace ed efficiente valorizziamo i canali proprietari e concentriamo su questi tutti gli sforzi economici aziendali e smettiamo di far sapere a tutti ogni volta che qualcosa non funziona”

Possiamo biasimare chi cerca di offrire di più ma raccoglie solo problemi? 

La mia riflessione sembra trovare conferma in un dato interessante in cui mi sono imbattuto durante la ricerca. 

 

Pare che Unicredit occupi uno degli ultimi posti nella classifica dei Reputation Awards 2019, che analizza la reputazione online dei marchi più noti. (clicca qui per consultare la fonte)

 

SFORZI ECONOMICI

Chi come me lavora al marketing digitale sa quanto oneroso possa essere per una piccola impresa fare social marketing.

Personale specializzato che ne conosca le logiche e gli algoritmi, direttori creativi, analisti, strateghi pubblicitari, programmatori, videomakers e animatori.

Professionisti pronti a far fronte a crisi digitali, critiche e attacchi in grado di diventare bombe mediatiche, in misura direttamente proporzionale alla reputazione aziendale.

A questo aggiungiamo l’utilizzo di tools specifici – e onerosi – per una gestione multicanale congiunta ed efficace. Completiamo con ingenti oneri legati alle Facebook Ads e non solo.

Adesso moltiplichiamo tutto questo per una pagina come quella di Unicredit, i cui contenuti sono di eccellente qualità, tanto nel visual quanto nel copy.

Quante risorse richiede la gestione di una pagina come quella di Unicredit?

Alla luce delle precedenti riflessioni, quanto di quelle risorse sono ben spese?

 

Leggendo i commenti ai post ho velocemente realizzato che tutto potrei desiderare di essere, tranne che il social media manager di Unicredit.

 

E LA REPUTAZIONE DIGITALE?

Non sono certo che lasciare i social sia una mossa che porterà vantaggi.

Nonostante ciò non riesco a ritenere del tutto infondata la decisione di Unicredit.

Le mie non sono che supposizioni, le motivazioni che hanno portato ad una scelta così drastica potrebbero essere ben più numerose e profonde.

Potrebbe essere fondata ad esempio la voce che vorrebbe Unicredit, e molti altri istituti bancari, sul piede di guerra nei confronti di Facebook, che pare stia sviluppando un metodo di pagamento online che darebbe una mazzata agli interessi digital delle banche.

Tornando alle interazioni, non sarebbe sufficiente limitare la funzione dei messaggi alla pagina o quella di commentare i post. La pagina sarebbe destinata comunque al fallimento. Niente interazione, niente awareness.

Dunque, tra meno di un mese Unicredit completerà un’azione che oggi appare anacronistica, totalmente in contrasto con il crescente sviluppo dei social e del digitale.

Un mantra del marketing consiglia di farsi trovare in quei luoghi in cui i clienti amano trascorrere il loro tempo. I social sono sicuramente uno di quei luoghi.

C’è da chiedersi quanto valga la pena assecondare la superficialità e la scarsa consapevolezza degli utenti o sacrificare la loro sicurezza sull’altare del progresso social.
Cosa accadrà ad Unicredit quando non sarà più social friendly?
Qualcuno si accoderà o assisteremo presto a un dietrofront?

 

 

Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.


bbadv-facebook-down-day-2019

FACEBOOK DOWN DAY - QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO

 

FACEBOOK DOWN DAY - QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO

Mentre l’intera suite di Facebook andava in panne, la concorrenza aveva la fila alla cassa.
Cosa accade alla tua azienda quando causi un disservizio ai tuoi clienti lasciandoli senza supporto?

È stato prontamente ribattezzato il “Down Day”. Io amo chiamarlo Mercoledì Nero di Zuckerberg.
Si lo so che può sembrarti esagerato un riferimento diretto alla crisi di del 1929 a New York. Ma sei sicuro di sapere cosa ha generato sul tessuto sociale ed economico una giornataccia dei server di Facebook?

AH! C’È ANCHE TELEGRAM

Pare che mentre Whatsapp si prendesse una piccola “pausa” - da leggersi blackout - le persone abbiano pensato bene di vedere più da vicino come funzionasse Telegram.

Quest’ultimo in poche ore ha acquisito circa 3 milioni di nuovi utenti.
Telegram da sempre ritenuto l’alternativa a Whatsapp - se conosci davvero Telegram sono sicuro che ti sarà venuta la pelle d’oca leggendo questa affermazione - ha registrato un aumento di registrazioni alla piattaforma che oltre ad offrire un servizio di messaggistica al pari di altre app, consente di rimanere aggiornati su brand e aziende attraverso i “canali” o trasferire documenti e file con prestazioni migliori rispetto ad altre applicazioni.

LET’S TWEET !

Fatto fuori Facebook per un po’, con Instagram i cui feed risultavano bloccati, ecco che Twitter ha vissuto un gran momento di gloria.

Il social dei cinguetti ha vissuto ore di celebrità divenendo per un giorno il social più utilizzato. Soprassediamo sul fatto che fosse l’unico funzionante?

Persino Zuckerberg ha dovuto comunicare attraverso il social avversario per informare media e utenti sul temporaneo disservizio.

CHI PAGA IL DANNO

Pare che Codacons si sia immediatamente attivata per ottenere risarcimenti dei danni patiti dalle aziende e dagli utenti che giornalmente sviluppano i loro contenuti o gestiscono le relazioni con i propri clienti sulle piattaforme oggetto del disservizio.

Pensaci, quante aziende sviluppano customer care attraverso Messenger, quanti funnel di vendita diretta sono sviluppati su Facebook, quante relazioni di lavoro ogni giorni si tengono attraverso Whatsapp?

Codacons ha formalmente invitato gli utenti a contattarla per ottenere risarcimento a danni materiali patiti durante le ore di blackout.

GOOGLE, AIUTAMI TU

Non era mai accaduto che Facebook vivesse una lunga serie di disservizi così duratura. Oltre 5 ore di rallentamenti e malfunzionamenti che hanno coinvolto anche Oculus, l’azienda - sempre di Mark - dedita alla ricerca e allo sviluppo di servizi di realtà aumentata.
Persino tra le query di google sono balzate in cima alla classifica parole chiave legate al disservizio.
Migliaia di utenti in cerca di spiegazioni e soluzioni per i numerosi errori di caricamento delle app.

DOVE SONO I MIEI SOLDI?

Lo avranno pensato i manager a capo dell’intera suite di Facebook Inc.?
Pare che il danno si possa stimare - di certezze in questi casi non se ne possono avere - in circa 110 milioni di dollari in azioni.
I disservizi di queste piattaforme rimbalzano, dalle campagne pubblicitarie attivate prima del blackout, alle attività pubblicitarie degli influencer, con conseguenze sul lavoro di decine di migliaia di social marketers.
Pensiamo alle dirette su Facebook Watch, canale scelto da molte società per divulgare contenuti video, che chiaramente hanno subito gli effetti del down day sulla trasmissione di eventi irripetibili.

QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO?

Non amo cavalcare questo genere di notizie solo per ottenere qualche visita in più al sito. In realtà ho trattato l’argomento perché mi è sembrata la risposta perfetta ad una domanda che faccio ad ogni nuovo cliente che incontro o a tutti quegli imprenditori che partecipano ai miei workshop e sostengono di non aver bisogno di un sito internet perché “hanno Facebook”.

Cosa accadrebbe se Facebook smettesse all’improvviso di funzionare? Cosa accadrebbe ai tuoi profitti, al tuo indotto di nuovi clienti, se tutto il tuo marketing fondato su un solo canale, crollasse senza preavviso?

Quando lo domando, puntualmente ricevo come risposta affermazioni come “è impossibile” oppure “Facebook è troppo potente” o ancora “ormai Facebook fa parte della vita di tutti”.

Ecco, il Down Day di Facebook è la dimostrazione che non si può e non si deve fare a meno di un sito internet e di una strategia di marketing basata sulla multicanalità on e off line. Dimostra che non si può veicolare prospect in store o sul sito solo e soltanto con un percorso Facebook-based. Dimostra che una buona inbound strategy va pianificata considerando stimoli multisensoriale, multilivello e multicanale.

Ci ricorda che un buon customer care e i servizi di assistenza possono essere velocizzati con servizi di messaggistica e chat, che tuttavia vanno affiancati al tradizionale supporto telefonico, che tanto rincuora chi ha bisogno di un contatto umano per sentirsi sostenuto.

Non dimenticando che oltre il web, le persone continuano ad esistere anche nella vita reale e che possono essere raggiunte al di fuori dello schermo del loro smartphone.


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-articolo-le-persone-lavorano-per-soldi

LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?

 

LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?

Ormai la ggente lavora solo per lo stipendio a fine mese e non fa nulla di più di ciò che gli viene richiesto.
Anzi, a dirla tutta non lavorano neanche così bene, per questo motivo si meritano a stento lo stipendio.

Sto scherzando, su! Non fare quella faccia inorridita.

Le due G di gente avrebbero dovuto farti capire subito che sono in vena di esagerare un po’, cavalcando l’onda di un luogo comune di cui, probabilmente, anche tu sei stato vittima qualche volta.

Non vorrai mica farmi credere che in un momento di nervosismo e delusione tu non abbia pensato che i tuoi collaboratori fossero soltanto un gruppo di mercenari fedeli solo al bonifico di fine mese?

Beh, se non lo hai mai pensato… accidenti! Complimenti vivissimi.
Insomma, sto ancora cercando un imprenditore che non lo abbia pensato almeno una volta per giustificare un periodo non proprio positivo.
Capita che la produzione stenti, o le vendite rallentino in modo preoccupante.
Ed ecco che le risorse umane sono un ottimo alibi da tirare in ballo.

D’altra parte qualsiasi azienda fonda il suo successo sul buon lavoro delle sue risorse.

“Potrebbero fare di più”
“Non partecipano abbastanza”
“Non li sento coinvolti”

È facile davvero pensare che i collaboratori vivano l’azienda come un momento della propria giornata, e che finito l’orario di lavoro finisca il loro legame con gli obiettivi e le necessità dell’organizzazione, almeno fino al giorno dopo.

È davvero così?

Sarebbe sbagliato in fondo?
Si lo so, tu che sei imprenditore non puoi farlo.
A qualsiasi ora del giorno e della notte le tue responsabilità ti seguono fedeli, anche in bagno o sotto le coperto la sera.
Per un collaboratore invece il lavoro può e dovrebbe essere qualcosa da poter interrompere, per tornare a casa e dedicarsi alle proprie passioni e alla propria famiglia.

Si lavora per vivere, non si vive per lavorare.
È un motivetto che circola spesso tra lavoratori.
Puoi biasimarli?

È naturale che il tuo legame con la tua azienda sarà sempre superiore a quello di qualsiasi collaboratore.
Questo però non li rende meno meritevoli della tua stima.

I collaboratori hanno bisogno della tua approvazione. Devono sapere di essere importanti per te, altrimenti perderanno interesse verso gli obiettivi del tuo business.

Quando si parla di motivazione del personale spesso si pensa ad attività eccentriche ed esagerate al fine di esaltare le persone.
In realtà la prima vera attività di team building e motivazione delle risorse umane è la stima del datore di lavoro.

Nessuno di noi vuole impegnarsi per qualcuno che non prova riconoscenza e stima.

Qualsiasi risorsa umana, lavativi seriali a parte, ha bisogno di trovare nell’azienda un’ambiente in cui confrontarsi alla pari, crescere personalmente oltre che professionalmente e costruire relazioni solide.

Appartenenza

In un’epoca social come può un’azienda non promuovere le relazioni.
I tuoi collaboratori conoscono i tuoi canali di comunicazione?
Partecipano attivamente e spontaneamente alla comunicazione verso l’esterno volta ad aumentare la brand reputation?
Prendono parte alle attività pubbliche del tuo brand, condividono contenuti social, spendono parole positive nelle loro cerchie verso il tuo prodotto?
I tuoi collaboratori sono i tuoi primi clienti?
Fanno uso dei tuoi prodotti o servizi?
Credono in ciò che producono?

Nessuno di noi è disposto a dedicare tempo e credibilità a qualcosa che non ama.
È fondamentale che i tuoi collaboratori sviluppino senso di appartenenza affinché sentano l’esigenza di essere allo stesso tempo ambassadors del sistema di valori che rappresentano attraverso il tuo marchio.

Il senso di appartenenza fa sì che ognuno di noi si trasformi volontariamente in paladino di una causa.

Se attrai persone interessate al denaro e poco altro, è possibile che tutta la tua comunicazione sia incentrata sul fatturato o sul massimo profitto.
La ricerca della redditività che è caratteristica di ogni business, ha per caso oscurato i valori umani della tua organizzazione?

Se comunichi solo attraverso obiettivi, incentivi, benefit a fatturato, premi produzione, sicuramente rientri tra quegli imprenditori che si sono lamentati o lo faranno presto, per collaboratori eccessivamente cinici e distaccati.

Rendili Felici

No, per carità. Non devi mica indossare una parrucca e fare ridere i tuoi colleghi.

Ma cavolo, a volte basta così poco per migliorare la vita di una persona.
Più supporto tecnico, strumenti di lavoro più agevoli e innovativi, una parete in meno o uno spazio confortevole per la pausa caffè.
Un Contest interno, o un’attività ludica fine a se stessa organizzata tra colleghi.
Ancor più banale, a volte migliorare l’areazione degli ambienti di lavoro genera maggiore entusiasmo.

Le esperienze positive inaspettate sono la chiave della felicità. Così come la condivisione degli obiettivi e la gratificazione al raggiungimento degli stessi.

Sai cosa ha fatto Facebook qualche anno fa?
Era prassi far trovare sulla scrivania di ogni nuovo collaboratore un piccolo libretto dalla copertina rossa, al cui interno erano contenute frasi e immagini ad alto impatto emotivo e motivanti.
Una grandissima azienda ma un piccolissimo gesto. Non dirmi che non potresti permettertelo.

Starbucks ad esempio incentiva qualsiasi dipendente agli studi universitari, finanziandoli attraverso un progetto interno.

Ikea omaggia i propri dipendenti di un buon acquisto nel caso in cui si sposino o inizino una convivenza, per approvarne le scelte familiari più importanti.

I dirigentii di Netflix, non a caso la maggior azienda di web streaming, sono tra i più felici al mondo. Godono di ferie illimitate a patto che portino a termine i loro impegni, e possono acquistare senza limiti di spesa purché le spese siano chiaramente a vantaggio dell’azienda.
Credi davvero che un colosso mondiale sottovaluti azioni come queste?

Molte grandi aziende americane hanno introdotto lo Chief happiness officer, nient’altro che un responsabile della felicità, incaricato di cogliere le esigenze e gli stati d’animo dello staff.

Potresti essere tu il responsabile della felicità della tua azienda, provando ad abbandonare qualche preconcetto e iniziando ad osservare il comportamento del tuo staff, appurando chi e perchè si impegna nelle proprie mansioni e valutando quanto le vostre motivazioni siano realmente compatibili.

Accerchiati di persone passionali, competenti e ambiziose. Condividi con loro le gioie e i successi del lavoro in gruppo.


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-peter-pan-articolo-marketing

Si può decidere di essere piccoli?

Si può decidere di essere piccoli?

La conosci la storia di Peter Pan?
Vabbè, si lo so, la conosci benissimo. Era per rompere il ghiaccio.

Tornando a Peter Pan, il nostro bulletto dell’Isola che non c’è proprio non voleva crescere.
Gettarsi nel mondo degli adulti, doversi sottomettere a così tante regole e formalità, dover vivere lo stress di imparare, di andare oltre le proprie conoscenze e tenere il passo in un mondo iper-competitivo e cinico.

Stiamo ancora parlando di Peter Pan? Si.
Ma anche no.

Non voglio confonderti. Anzi, rifletti insieme a me su questa domanda:

La tua azienda è piccola o grande?

Sappiamo benissimo che il mercato lo fanno le grandissime aziende, i colossi internazionali.

Tuttavia in quello stesso mercato sono decisamente più numerose le piccole e medie imprese.

In realtà, se proprio vogliamo andare a fondo a questo luogo comune, la maggior parte del mercato è composto da piccolissime aziende, con meno di 10 dipendenti, artigiani, professionisti.

Allora è più corretto dire che la maggior parte del profitto sta alle grandissime aziende, le piccole si dividono la restante parte.
Questa non è una cattiva notizia in fondo.

È chiaro che una piccola azienda – per piccola intendiamo attività locali, artigiani – non può sovrastare il messaggio pubblicitario di un colosso che fa del marketing di massa la sua arma più potente.

È proprio per questo che le piccole aziende dovrebbero smettere di provare a vendere a tutti, e cominciare a selezionare minuziosamente i clienti.

Hai sentito bene. Se stai pensando che in tempo di crisi – a ridaje co’ sta crisi – non possiamo permetterci di fare gli schizzinosi, sappi che… non è quello che sto dicendo.

La verità è che le piccole aziende fanno una fatica – economica e fisica – sproporzionata nel cercare di mostrarsi ad un pubblico quanto più ampio possibile.
Al contrario, sono proprio le attività familiari, i piccoli artigiani, i produttori locali che hanno più bisogno di identificare correttamente i propri clienti.

Una volta definito il profilo ideale sarà più facile, anche grazie ai moderni strumenti di promozione, spendere in modo oculato anche piccoli budget pubblicitari veicolandoli sul target giusto.

Identificare il cliente ideale, chiarire il sistema di valori, costruire un’immagine chiara e coerente, sfruttare il direct marketing e programmare una strategia di Inbound Marketing è più urgente per una piccola impresa che non per un brand affermato.

NON BISOGNA CRESCERE PER FORZA

Non tutte le piccole aziende mirano a diventare grandi.
Non tutti i ristoratori vogliono aprire catene in franchising e non tutte le sartorie vogliono ateliers nelle capitali europee.

È legittimo che ognuno abbia ambizioni diverse.

Sia chiaro, quando diciamo “piccola” non intendiamo approssimativa o #FattoInCasaConPassione.

Un’azienda può esprimere un prodotto/servizio di primissima qualità lavorando con piccole produzioni o mantenendo le tradizionali lavorazioni a mano che naturalmente richiedono più tempo.

Ad esempio un forno locale può perseguire l’uso di grani antichi, lievitazioni lente e naturali. Può rigettare l’uso di prodotti chimici o surrogati.
Può farlo mantenendo lo stesso staff di sempre, un unico punto vendita e applicando costi che sostengano l’intero business senza la ricerca spasmodica di una fetta di mercato più ampia. A quel punto gli basterà identificare una value proposition chiara e diretta per posizionarsi senza ambiguità sul mercato.

Un calzaturificio a conduzione familiare potrebbe concentrarsi su scarpe di vera pelle, prodotto perfetto per professionisti affermati.
Potrebbe poi completare la proposta commerciale con un prodotto per la pulizia efficace delle scarpe, rimanere a conduzione familiare per mantenere alte attenzione e competenza sulla produzione, e concentrarsi sul livello di fidelizzazione con i propri clienti prima ancora che pensare di trovarne di nuovi.

LAVORARIAMO CON I PICCOLI E NE SIAMO FIERI

Noi siamo piccoli!

Fai un giro sul nostro sito. Siamo pochi ma buoni, abbiamo entusiasmo e ci divertiamo parecchio nei momenti creativi. Il nostro ufficio è maledettamente piccolo, ma è vero che se fosse più grande ci parleremmo meno.

Piccolo non vuol dire sfigato.

Nel settore del marketing, le agenzie tendono a ricercare clienti “grandi”, brand prestigiosi che possano conferire parte di quel prestigio. La fama di un’agenzia di comunicazione è direttamente proporzionale alla fama dei marchi che tratta. Almeno così si dice in giro.

Eppure noi troviamo ugualmente appagante lavorare con piccole o grandi aziende a patto che vi sia una visione, un intento preciso e tanto entusiasmo. Nel nostro portfolio coesistono piccoli e grandi marchi, non facciamo distinzione.

Spesso ci sediamo a tavolino con aziende locali e riscopriamo valori meravigliosi da comunicare. Appartenenza territoriale, produzioni storiche, folklore e tradizioni, storie di famiglia attraverso generazioni di sacrifici.

Alle volte ci soffermiamo ad analizzare il marketing di marchi più blasonati che sembrano però parlare a tutti e a nessuno. Tavoli su cui fatturato, ricavo, investimento sovrastano qualsiasi altra considerazione.

Si può essere piccoli per scelta o per sorte, ma la cultura d’impresa va al di là della grandezza del brand.

Il panificio, la farmacia, il mini market, la gelateria artigianale.
Il “chioschetto” notturno o la pasticceria storica, possono sviluppare un marketing mirato e diretto al loro cliente tipo, dimenticando promozioni su “maxi formato” o ”larga scala” o peggio “massima diffusione”.

Se i piccoli imprenditori capissero che è più facile, meno dispendioso e più profittevole parlare da piccola azienda soltanto ai clienti in target, probabilmente avremmo più clienti.

E a quel punto, diventeremmo grandi?