UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK
UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK
L’annuncio è arrivato Venerdì 3 Maggio e in poche ore è diventata notizia discussa in numerosi gruppi di marketing digitale. Passo falso o innovazione? Il web si spacca schierandosi per l’una o per l’altra previsione.
Un fulmine a ciel sereno.
Probabilmente per molti non è stata una notizia degna di nota ma, per gli addetti ai lavori, è l’input perfetto per infuocare le community durante tutto il weekend.
Unicredit, attraverso un post su Facebook, ha annunciato che a partire dal 1 Giugno 2019 abbandonerà definitivamente i canali social – specificando Facebook, Messenger e Instagram – in favore di strumenti proprietari.

La motivazione, che pure meriterebbe comprensione e consenso, pare in realtà nascondere altro.
Valorizzare i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato e di alta qualità
Nel giro di poco più di 15 minuti il post è stato condiviso in almeno 7 gruppi a cui sono iscritto.
Immediatamente si sono create due fazioni.
Da una parte i nobili paladini di una scelta che apparentemente vuole tutelare i dati sensibili dei propri correntisti, dall’altra i detrattori di una scelta poco lungimirante e anacronistica.

Ho sentito immediatamente il desiderio di scrivere qualcosa al riguardo ma mi sono concesso 48 ore per riflettere a fondo su una questione più complessa di quel che i social media manager di Unicredit vorrebbero a mio avviso far percepire.
LA MOTIVAZIONE
Un testo sibillino, formale ed equilibrato ma che nasconde quasi certamente riflessioni aziendali lungimiranti.
Uno di quei testi pensato e pesato più volte con il desiderio di dire una verità fastidiosa ma elegantemente, magari lanciando un messaggio a qualcuno.
“Valorizzare i canali digitali proprietari […]”
Unicredit abbandonerebbe i social network per dare maggior peso alle proprie app e ai canali di comunicazione sviluppati.
Mi pare legittimo che una società che investe ingenti risorse nello sviluppo di strumenti di customer care e che compie sforzi enormi per tutelare la privacy e la massima sicurezza nelle operazioni online, voglia accendervi i riflettori e veicolare quanto più possibile l’attenzione dei suoi correntisti, inducendoli a utilizzarli e trovarvi risposte esaustive ad ogni dubbio.
A onor del vero un correntista che ricorre ai social per mettersi in contatto con la sua banca, potrebbe cadere preda delle ads e dei contenuti promossi da altri istituti bancari. Per questo ha senso cercare di spostare gli utenti su “porti più sicuri”.
“[…] per garantire un dialogo riservato e di alta qualità”. È la parte più interessante del post.
Da una parte è vero che Facebook è stata oggetto di ben note vicende relative all’illegittima dispersione di dati sensibili dei suoi utenti (Dopo l’F8, però qualcosa sta cambiando, approfondisci qui).
Proprio a seguito dello scandalo Cambridge Analytica, l’amministratore delegato di Unicredit Jean Pierre Mustier aveva annunciato che la sua società avrebbe interrotto qualsiasi attività promozionale sul social.
Credo però che per dialogo riservato, nel post si faccia riferimento ad una prassi che ho potuto constatare sbirciando tra i commenti ai post della pagina.

Qualsiasi post pubblicato sulla pagina, che faccia riferimento ad eventi musicali, istruzioni per la compilazione di moduli bancari o eventi sportivi o culturali di cui Unicredit è sponsor, ecco che decine di correntisti ne approfittano per muovere pubblicamente lamentele sulla qualità dei servizi (aggiornamenti app, call center, ricevimento in filiale) o per richiedere assistenza rispetto a talune funzioni dell’home banking o procedure bancarie.
In alcuni commenti si evince chiaramente che molti utenti scrivono senza rendersi conto della differenza che intercorre tra un messaggio privato e un commento, rischiando – ma non escludo che sia accaduto in post al di fuori della mia veloce ricerca – di fornire dati sensibili e delicati, o peggio codici di sicurezza, a chiunque leggesse i commenti.
Sappiamo benissimo infatti che l’utilizzo dei social è uno degli argomenti più controversi dei nostri tempi e non sono affatto poche le persone che non hanno ancora compreso fino in fondo quanto pericolosi possano essere i social network e quanto influenzino la vita reale.
La vita del team che gestisce la pagina non deve essere semplice. In uno scenario come questo, i social media manager di Unicredit devono essere molto aziendalisti, esperti delle procedure e di tutti gli strumenti bancari, con conoscenza profonda di tutti i servizi e prodotti. Insomma, non certo qualcosa di scontato per un social media marketer.
Posso dunque immaginare che garantire un’assistenza social veloce ed esaustiva costringa la Banca ad affidare le interazioni a personale estremamente qualificato, con ingenti investimenti.
Tuttavia, non pare ottenere risultati che giustifichino lo sforzo. I commenti infatti sono ricchi di critiche e lamentele riguardo i servizi. Problemi che andrebbero discussi privatamente, al telefono con un operatore specializzato. Invece ogni sciocchezza diviene motivo di scontro pubblico.
Certo non la miglior pubblicità possibile.
Ecco dunque cosa – probabilmente – vuol dire “dialogo riservato e di alta qualità”.
Parafrasando potrebbe suonare più o meno così.
“basta sbandierare qualsiasi problema ai quattro venti, per fare assistenza efficace ed efficiente valorizziamo i canali proprietari e concentriamo su questi tutti gli sforzi economici aziendali e smettiamo di far sapere a tutti ogni volta che qualcosa non funziona”
Possiamo biasimare chi cerca di offrire di più ma raccoglie solo problemi?
La mia riflessione sembra trovare conferma in un dato interessante in cui mi sono imbattuto durante la ricerca.

Pare che Unicredit occupi uno degli ultimi posti nella classifica dei Reputation Awards 2019, che analizza la reputazione online dei marchi più noti. (clicca qui per consultare la fonte)
SFORZI ECONOMICI
Chi come me lavora al marketing digitale sa quanto oneroso possa essere per una piccola impresa fare social marketing.
Personale specializzato che ne conosca le logiche e gli algoritmi, direttori creativi, analisti, strateghi pubblicitari, programmatori, videomakers e animatori.
Professionisti pronti a far fronte a crisi digitali, critiche e attacchi in grado di diventare bombe mediatiche, in misura direttamente proporzionale alla reputazione aziendale.
A questo aggiungiamo l’utilizzo di tools specifici – e onerosi – per una gestione multicanale congiunta ed efficace. Completiamo con ingenti oneri legati alle Facebook Ads e non solo.
Adesso moltiplichiamo tutto questo per una pagina come quella di Unicredit, i cui contenuti sono di eccellente qualità, tanto nel visual quanto nel copy.
Quante risorse richiede la gestione di una pagina come quella di Unicredit?
Alla luce delle precedenti riflessioni, quanto di quelle risorse sono ben spese?

Leggendo i commenti ai post ho velocemente realizzato che tutto potrei desiderare di essere, tranne che il social media manager di Unicredit.
E LA REPUTAZIONE DIGITALE?
Non sono certo che lasciare i social sia una mossa che porterà vantaggi.
Nonostante ciò non riesco a ritenere del tutto infondata la decisione di Unicredit.
Le mie non sono che supposizioni, le motivazioni che hanno portato ad una scelta così drastica potrebbero essere ben più numerose e profonde.
Potrebbe essere fondata ad esempio la voce che vorrebbe Unicredit, e molti altri istituti bancari, sul piede di guerra nei confronti di Facebook, che pare stia sviluppando un metodo di pagamento online che darebbe una mazzata agli interessi digital delle banche.
Tornando alle interazioni, non sarebbe sufficiente limitare la funzione dei messaggi alla pagina o quella di commentare i post. La pagina sarebbe destinata comunque al fallimento. Niente interazione, niente awareness.
Dunque, tra meno di un mese Unicredit completerà un’azione che oggi appare anacronistica, totalmente in contrasto con il crescente sviluppo dei social e del digitale.
Un mantra del marketing consiglia di farsi trovare in quei luoghi in cui i clienti amano trascorrere il loro tempo. I social sono sicuramente uno di quei luoghi.
C’è da chiedersi quanto valga la pena assecondare la superficialità e la scarsa consapevolezza degli utenti o sacrificare la loro sicurezza sull’altare del progresso social.
Cosa accadrà ad Unicredit quando non sarà più social friendly?
Qualcuno si accoderà o assisteremo presto a un dietrofront?

Nazareno Brancatello
Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.
LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?
LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?
Ormai la ggente lavora solo per lo stipendio a fine mese e non fa nulla di più di ciò che gli viene richiesto.
Anzi, a dirla tutta non lavorano neanche così bene, per questo motivo si meritano a stento lo stipendio.
Sto scherzando, su! Non fare quella faccia inorridita.
Le due G di gente avrebbero dovuto farti capire subito che sono in vena di esagerare un po’, cavalcando l’onda di un luogo comune di cui, probabilmente, anche tu sei stato vittima qualche volta.
Non vorrai mica farmi credere che in un momento di nervosismo e delusione tu non abbia pensato che i tuoi collaboratori fossero soltanto un gruppo di mercenari fedeli solo al bonifico di fine mese?
Beh, se non lo hai mai pensato… accidenti! Complimenti vivissimi.
Insomma, sto ancora cercando un imprenditore che non lo abbia pensato almeno una volta per giustificare un periodo non proprio positivo.
Capita che la produzione stenti, o le vendite rallentino in modo preoccupante.
Ed ecco che le risorse umane sono un ottimo alibi da tirare in ballo.
D’altra parte qualsiasi azienda fonda il suo successo sul buon lavoro delle sue risorse.
“Potrebbero fare di più”
“Non partecipano abbastanza”
“Non li sento coinvolti”
È facile davvero pensare che i collaboratori vivano l’azienda come un momento della propria giornata, e che finito l’orario di lavoro finisca il loro legame con gli obiettivi e le necessità dell’organizzazione, almeno fino al giorno dopo.
È davvero così?
Sarebbe sbagliato in fondo?
Si lo so, tu che sei imprenditore non puoi farlo.
A qualsiasi ora del giorno e della notte le tue responsabilità ti seguono fedeli, anche in bagno o sotto le coperto la sera.
Per un collaboratore invece il lavoro può e dovrebbe essere qualcosa da poter interrompere, per tornare a casa e dedicarsi alle proprie passioni e alla propria famiglia.
Si lavora per vivere, non si vive per lavorare.
È un motivetto che circola spesso tra lavoratori.
Puoi biasimarli?
È naturale che il tuo legame con la tua azienda sarà sempre superiore a quello di qualsiasi collaboratore.
Questo però non li rende meno meritevoli della tua stima.
I collaboratori hanno bisogno della tua approvazione. Devono sapere di essere importanti per te, altrimenti perderanno interesse verso gli obiettivi del tuo business.
Quando si parla di motivazione del personale spesso si pensa ad attività eccentriche ed esagerate al fine di esaltare le persone.
In realtà la prima vera attività di team building e motivazione delle risorse umane è la stima del datore di lavoro.
Nessuno di noi vuole impegnarsi per qualcuno che non prova riconoscenza e stima.
Qualsiasi risorsa umana, lavativi seriali a parte, ha bisogno di trovare nell’azienda un’ambiente in cui confrontarsi alla pari, crescere personalmente oltre che professionalmente e costruire relazioni solide.
Appartenenza
In un’epoca social come può un’azienda non promuovere le relazioni.
I tuoi collaboratori conoscono i tuoi canali di comunicazione?
Partecipano attivamente e spontaneamente alla comunicazione verso l’esterno volta ad aumentare la brand reputation?
Prendono parte alle attività pubbliche del tuo brand, condividono contenuti social, spendono parole positive nelle loro cerchie verso il tuo prodotto?
I tuoi collaboratori sono i tuoi primi clienti?
Fanno uso dei tuoi prodotti o servizi?
Credono in ciò che producono?
Nessuno di noi è disposto a dedicare tempo e credibilità a qualcosa che non ama.
È fondamentale che i tuoi collaboratori sviluppino senso di appartenenza affinché sentano l’esigenza di essere allo stesso tempo ambassadors del sistema di valori che rappresentano attraverso il tuo marchio.
Il senso di appartenenza fa sì che ognuno di noi si trasformi volontariamente in paladino di una causa.
Se attrai persone interessate al denaro e poco altro, è possibile che tutta la tua comunicazione sia incentrata sul fatturato o sul massimo profitto.
La ricerca della redditività che è caratteristica di ogni business, ha per caso oscurato i valori umani della tua organizzazione?
Se comunichi solo attraverso obiettivi, incentivi, benefit a fatturato, premi produzione, sicuramente rientri tra quegli imprenditori che si sono lamentati o lo faranno presto, per collaboratori eccessivamente cinici e distaccati.
Rendili Felici
No, per carità. Non devi mica indossare una parrucca e fare ridere i tuoi colleghi.
Ma cavolo, a volte basta così poco per migliorare la vita di una persona.
Più supporto tecnico, strumenti di lavoro più agevoli e innovativi, una parete in meno o uno spazio confortevole per la pausa caffè.
Un Contest interno, o un’attività ludica fine a se stessa organizzata tra colleghi.
Ancor più banale, a volte migliorare l’areazione degli ambienti di lavoro genera maggiore entusiasmo.
Le esperienze positive inaspettate sono la chiave della felicità. Così come la condivisione degli obiettivi e la gratificazione al raggiungimento degli stessi.
Sai cosa ha fatto Facebook qualche anno fa?
Era prassi far trovare sulla scrivania di ogni nuovo collaboratore un piccolo libretto dalla copertina rossa, al cui interno erano contenute frasi e immagini ad alto impatto emotivo e motivanti.
Una grandissima azienda ma un piccolissimo gesto. Non dirmi che non potresti permettertelo.
Starbucks ad esempio incentiva qualsiasi dipendente agli studi universitari, finanziandoli attraverso un progetto interno.
Ikea omaggia i propri dipendenti di un buon acquisto nel caso in cui si sposino o inizino una convivenza, per approvarne le scelte familiari più importanti.
I dirigentii di Netflix, non a caso la maggior azienda di web streaming, sono tra i più felici al mondo. Godono di ferie illimitate a patto che portino a termine i loro impegni, e possono acquistare senza limiti di spesa purché le spese siano chiaramente a vantaggio dell’azienda.
Credi davvero che un colosso mondiale sottovaluti azioni come queste?
Molte grandi aziende americane hanno introdotto lo Chief happiness officer, nient’altro che un responsabile della felicità, incaricato di cogliere le esigenze e gli stati d’animo dello staff.
Potresti essere tu il responsabile della felicità della tua azienda, provando ad abbandonare qualche preconcetto e iniziando ad osservare il comportamento del tuo staff, appurando chi e perchè si impegna nelle proprie mansioni e valutando quanto le vostre motivazioni siano realmente compatibili.
Accerchiati di persone passionali, competenti e ambiziose. Condividi con loro le gioie e i successi del lavoro in gruppo.

Nazareno Brancatello
Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.
Paternità di un’opera. È giusto firmare i propri lavori?
PATERNITÀ DI UN'OPERA. È GIUSTO FIRMARE I PROPRI LAVORI?
Siamo innegabilmente in un momento storico in cui la digitalizzazione ha dato l’impressione che tutto sia di tutti, che l’informazione non abbia padrone (se mai ne abbia avuto uno) e che chiunque possa utilizzare qualsiasi cosa per i propri scopi.
SPOILER: ARTICOLO AD ALTO CONTENUTO DI OPINIONI PERSONALI.
È il lato oscuro dei motori di ricerca.
Digiti qualche parola.
Ottieni siti, articoli di blog, interviste, citazioni, fotografie e video.
Gran parte dei materiali depositati sul web, quindi sui numerosi social network e sui siti delle aziende, sono copie di copie che vengono di volta in volta acquisite - sempre grazie ai motori di ricerca - e riutilizzate.
Un plauso invece alle aziende che si autoproducono con grafici, copywriter e sviluppatori interni, o che si affidano a società di marketing per farlo.
Sono aziende che hanno ben chiaro il valore del marketing e della strategia prima della vendita del prodotto.
Come si fa dunque a stabilire la paternità di un contenuto in una giungla di informazioni quale è il web?
Perché una società di marketing dovrebbe (o non dovrebbe) firmare un contenuto prodotto per i clienti? E quando può essere ritenuto lecito farlo?
FIRMARE O NON FIRMARE?
Partiamo dalla considerazione che il web non offre risposte chiare.
Al di là dei diritti d’autore e del copyright, argomenti spinosi che avrò cura di non aprire, non esiste un riferimento chiaro e univoco riguardo alla legittimità da parte di una società nel firmare un progetto grafico, una locandina, uno spot video.
Siamo nell’ambito dell’uso comune.
Si fa riferimento a chi e quanti prima lo abbiano fatto e in che modo.
Rimaniamo nel territorio dell’autodeterminazione, di una scelta personale che ogni società è libera di fare, in funzione dei risultati che vuole ottenere.
E le scelte - tutte le scelte - sono opinabili in quanto tali e mai una potrà mettere d’accordo tutti.
É un argomento apparentemente semplice che in realtà costringe ad una riflessione su due livelli. Quello estetico e quello etico.
CREDIBILITÀ
Il lavoro di marketing non è per tutti.
Il tempo dei consumatori “creduloni” che attribuivano ad un brand ogni azione del brand, ogni produzione e ogni risultato - diciamocelo - è quasi finito.
L’enorme grado di consapevolezza dei millennials rispetto ai concetti di reputation o di pubblicità, fa sì che sia ormai consolidata nei consumatori la consapevolezza che un brand è costruito da azioni simultanee.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo la produzione agli operai, i conti all’amministrazione, i piatti agli chefs, il social ai social media manager.
Dunque - ricordi quanto ti ho detto che avresti trovato molto delle mie personali opinioni? - sono quasi certo che qualsiasi consumatore minimamente dotto rispetto alle dinamiche digitali, sia consapevole che i testi di un sito internet ben fatto, o i post di un profilo social aziendale, non siano curati direttamente dall’imprenditore, ma da qualcuno che lo rappresenta più o meno fedelmente.
Può un bravo imprenditore della ristorazione essere anche un esperto graphic designer o SEO specialist?
Quantomeno improbabile…
E perché mai il fatto che un imprenditore intelligente che abbia saputo delegare queste funzioni ad un addetto esperto, dovrebbe infastidire i suoi clienti, anche i più affezionati?
Dunque un’opera firmata, che sia un contenuto social, un sito o una semplice locandina, a mio avviso non toglie nulla né al prodotto né all’organizzazione oggetti della comunicazione.
E se da cliente scrivi ad una pagina convinto di parlare all’imprenditore, ti suggerisco di scrivergli un più amichevole messaggino o di cercarti il suo profilo personale.
ETICA CUM GRANO SALIS
Fatto pace con il pensiero che il marketing sta ai marketers e che non vi è nulla di male, anche se dovesse essere noto pure ai consumatori, rimane la quaestio scomoda riguardo alla legittimità di un’agenzia di firmare un’opera su commissione.
Mi verrebbe banalmente da dire che tutto il mercato si basa sulla pubblicità e che, in assenza di diversi accordi contrattuali, nulla vieta a qualsiasi agenzia di indicare la paternità di un opera anche per ovvi e mai celati fini pubblicitari.
D’altra parte ad apprezzare una campagna pubblicitaria o una strategia non sono solo i consumatori che la subiscono, ma spesso maggiormente gli addetti ai lavori e altri imprenditori.
Per non parlare del piacere di qualsiasi artista nel vedere realizzata, esposta ed apprezzata una sua creazione.
Lo strumento più efficace per una società di marketing per farsi notare è, appunto, firmare un’opera ben fatta.

Questo chiaramente non legittima il professionista ad apporre il proprio nome a caratteri cubitali, o dimenticare la “gerarchia” tra le dimensioni di una firma e il messaggio che deve passare attraverso l’opera stessa.
Per cui - eccoci, siamo di nuovo ad una mia personale opinione - una firma non può far male a nessuno ammesso che in alcuna misura penalizzi l’efficacia del contenuto o del messaggio.
FIRMIAMO TUTTO ?
Sono assolutamente a favore del firmare un’opera, fatte le dovute eccezioni.
Un brand internazionale potrebbe al contrario subire un danno se si palesasse troppo apertamente che le proprie strategie di marketing sono affidate ad altri.
Si presuppone infatti che le multinazionali abbiano fior fior di professionisti al loro servizio e che siano ben consci non solo dei valori che rappresentano, ma anche di quali siano i mezzi migliori per comunicarli.
Ecco dunque il caso in cui apprezzo che un progetto rimanga “anonimo”.
Va da sè che nella fattispecie i costi che il cliente dovrà sostenere saranno superiori proprio in virtù di una cessione praticamente totale di ogni diritto o attribuzione di paternità di quell’opera.
Il secondo caso in cui non ritengo necessario che un professionista firmi una realizzazione è per quelli che definisco “contenuti leggeri”, ovvero testi e grafiche di breve e semplice applicazione, ad esempio quei post per social network finalizzati all’acchiappa reach, o contenuti emozionali che meritano di poter vivere la loro breve ma intensa vita in pace e nell’anonimato.
E se non sai cosa sia un’acchiappa reach, allora è il caso che deleghi il tuo digital marketing ad altri.
L’efficacia di un contenuto nel diventare più o meno virale/diffuso è data anche dalla sua presunta istantaneità creativa.
Un post in cui sia palese un ragionamento profondo o una strategia, rischia di essere inconsciamente penalizzato dal pubblico stesso.
A OGNUNO IL SUO
Può infastidire un consumatore sapere che la comunicazione online del suo brand del cuore non è gestito dal brand del cuore ma da un addetto specializzato.
Si se… qualcuno sperasse di parlare con Carlo Cracco commentando i post di Carlo Cracco, o di discutere di politica con Salvini commentando i suoi post.
O Ancora di parlare con una Girella interagendo con i post della nota merendina.
No se… riesci ad apprezzare che un bravo ristoratore sia conscio che una comunicazione professionale non è il suo mestiere, o che una nota marca di birre affidi ad un social media manager il compito di trollare i fans della pagina felici di lasciarsi trollare, consapevoli tuttavia che non è stata né la birra né tantomeno il signor birraiolo.

Nazareno Brancatello
Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.
Cosa sono i "KPI" e perché sono importanti
Cosa sono i "KPI" e perché sono importanti
Lo vedi scritto spesso.
Hai partecipato ad alcuni corsi di aggiornamento sul marketing e il relatore ha detto che bisogna monitorare i KPI e apportare le dovute modifiche alla web campaign.
Tu hai annuito insieme al resto della platea. Non volevi mica che qualcuno pensasse che TU non conosci i KPI.
Tranquillo.
Non è grave. Puoi guarire subito, leggendo questo articolo fino in fondo.
PARLIAMO SEMPLICE
Sembrava una moda destinata a tramontare, e invece l’uso di acronimi e termini anglofoni continuano a illudere molti professionisti di poter apparire più preparati di quanto non siano realmente.
Qualche rigo più sù ad esempio potevamo scrivere campagna pubblicitaria sul web, ma vuoi mettere il gusto di scrivere web campaign e stupirti con un colpo ad effetto?
Parlavamo quindi dei KPI…
INDICATORE CHIAVE DI PRESTAZIONE
In economia aziendale - cito testualmente Wikipedia che, per la cronaca, potresti aver già visitato prima di finire qui sul nostro blog - un indicatore chiave di prestazione […] è un indice che monitora un processo aziendale.
In sostanza un KPI è un dato numerico che ti permette di valutare l’efficacia o l’efficienza di un’azione specifica o di un segmento della tua organizzazione.
Sapere quanti prospect attrai, quanti di questi si trasformano in clienti, attraverso quanti e quali step riesci ad effettuare la prima vendita di front-end e con quale investimento per cliente, qual è la vendita media per cliente o per quanto tempo riesci a mantenerlo tale, quante azioni di re-selling riesci a sviluppare prima che il cliente ti abbandoni.
Questi sono solo alcuni esempi di KPI che puoi raccogliere utilizzando strumenti relativamente semplici.
Non mi va molto l’idea di ragionare sulla dicitura didattica, ci sono fonti più autorevoli.
Preferisco ragionare insieme a te sul perché avere delle KPI, quindi definirle prima di muovere qualsiasi azione “strategica” on o off line, non è solo importante ma è necessario e fondamentale.
Si può fare pubblicità o marketing senza KPI?
Vediamo se riesco a rendere l’idea…
NO.
In realtà dovresti avere degli indicatori di performance per ogni area della tua aziende.
- Dati misurabili sulle prestazioni delle risorse umane.
- Dati misurabili sulle vendite, rapportate ai mesi precedenti, agli anni precedenti e previsioni credibili sul futuro per poter programmare il lavoro e gli investimenti
- Dati misurabili sul marketing e sul rientro pubblicitario.
È ovvio che per elaborare e leggere correttamente i KPI (in italiano ICP) sarebbe bene avvalersi del supporto di un analista specializzato. Ma non è obbligatorio, quantomeno non se saprai svilupparne di semplici e utilizzare gli strumenti corretti per memorizzarli e rileggerli poi.
Noi ad esempio non disponiamo di un analista in staff.
Eppure sappiamo quantificare in termini numerici l’efficacia di ogni campagna che sviluppiamo per i nostri clienti.
Per molti indicatori utilizziamo un software che gestisce tutte le informazioni e ci offre in tempo reali i dati già a confronto.
È quello che fanno molti alberghi, ristoranti, saloni di bellezza.
Se non disponi di un software, anche excel è un ottimo strumento per tenere traccia dei dati.
QUALI SONO I KPI
Ne esistono tantissimi. Se ne possono sviluppare tantissimi. Se messi in relazione tra loro ti offrono un quadro credibile sul perché a fine anno non ti rimane un centesimo per fare i regali di natale ai collaboratori.
Ci sono indicator di costo, di servizio, di qualità.
Naturalmente i KPI hanno nomi fighissimi che tengono a debita distanza i profani. EVA, NOPAT, Time to market, CPM, Life time value, CPC, CTR, conversation rate….
Impossibile ricordarli tutti.
Quello che principalmente ci interessa è valutare il lavoro pubblicitario attraverso indicatori di volume, dunque dati numerici che possano rivelarci quanto è stata efficace una campagna di outbound marketing, o quanti prospect ha generato un funnel, o l’engagement rispetto ad un Contest o qualsiasi altra attività di marketing.
I social media che offrono alle aziende la possibilità di realizzare Ads campaign ad esempio, come Facebook, Twitter o LinkedIn, forniscono delle KPI proprio per consentire all’inserzionista di valutare se quella campagna è stata efficace o ha permesso di raggiungere lo scopo desiderato.
CASO REALE
Pochi mesi fa un’azienda ci ha contatti perché aveva notato un calo considerevole nel numero di preventivi emessi nell’anno in corso rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente.
Ad aggravare la situazione, all’interno di questo numero, i preventivi confermati erano inferiori in percentuale rispetto a quelli dell’anno prima.
Inoltre rilevava che per l’anno successivo avrebbe avuto un tasso di occupazione inferiore rispetto a quello dell’anno in corso.
Ci siamo resi velocemente conto che a parità di servizio reso, con un aumento nella qualità e nella quantità di alcuni servizi - attestato da recensioni e feedback eccezionali - il problema non poteva essere il prodotto, ma la capacità del brand di raggiungere i potenziali clienti e trasformarli poi in clienti.
Era necessario agire su 3 fronti:
- Miglioramento dell’efficacia nella consulenza e nella vendita rispetto ai prospect già acquisiti, attraverso analisi e formazione one-to-one sul personale addetto alla vendita.
- Aumento di conversione da utenti - tantissimi stando ai dati social - a lead attraverso la creazione di un funnel e la realizzazione di un magnet di altissimo valore percepito.
- Strategia di Direct marketing sui lead per trasformarli in prospect, attraverso la realizzazione di un’attività esperenziale ad alto impatto emotivo.
Il risultato? Abbiamo generato circa 70 nuovi prospect in meno di 50 giorni con un costo medio per prospect tale che l'intero investimento pubblicitario sarebbe coperto dall'esito positivo di appena 2 consulenze, stando al valore medio di un preventivo e al ricavo medio per preventivo.
Misurare le performance di un’azione di marketing è fondamentale per capire se uno strumento funziona oppure mangia inutilmente i tuoi soldi.

Nazareno Brancatello
Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.