bbadv-dati-facebook-articolo-algoritmo

Come funziona (davvero) l'algoritmo di Facebook

COME FUNZIONA (DAVVERO) L’ALGORITMO DI FACEBOOK?

La maggior parte degli utenti di facebook non sono neanche consapevoli che tutti i contenuti si muovono sotto la regia di un algoritmo matematico.
Come in molte altre cose della natura, in molti utilizzano uno strumento senza neanche chiedersi perché e come funzioni. Quest’ultima domanda è però fondamentale per gli affari.


In questo articolo troverai:

 

 

 


 

 

Piacere, il mio nome è Algoritmo!

Ti sarai chiesto almeno una volta come mai visualizzi sul tuo feed personale taluni contenuti, specifici post sponsorizzati di pagine che in realtà non segui o perché non vedi la foto delle vacanze di un tuo amico.

Allo stesso modo, se gestisci una pagina Facebook per la tua attività, quasi sicuramente ti sarai domandato tante volte perché non performa come vorresti e perché pochi utenti interagiscono con i tuoi post, sicuramente in un numero inferiore rispetto ai fan della pagina stessa. (A proposito di performance, sei a conoscenza di quali dati monitorare? Approfondisci l’argomento con questo articolo)  

Tutte le risposte si esauriscono con una sola parola.

Algoritmo.

Facebook come i più grandi “contenitori” del web – motori di ricerca, social – è governato da un algoritmo che seleziona e distribuisce ogni singolo contenuto – nativo e non – e “valuta” quando, come e a chi mostrarlo.

Imparare a conoscerlo, capirne il funzionamento, ti permetterà di ottenere risultati maggiori, sia nella qualità dei contenuti della tua home, sia nella gestione del tuo business online.

 

Come funziona l’algoritmo e come incide sulla portata organica dei post

L’obiettivo annunciato dell’algoritmo, e quindi di Facebook come piattaforma, è fornire la risposta corretta alla persona giusta nel momento in cui ne ha bisogno.

Un onere pretenzioso per il quale la magia non è naturalmente una soluzione. Ecco perché su Facebook comanda una formula di calcolo predefinita che si muove su schemi programmati.

Una serie di step che l’algoritmo compie per gli utenti e i contenuti da distribuire. Sono fondamentalmente i seguenti.

  1. INVENTORY
    Ogni volta che un utente lancia la propria home (o stream, o news feed) l’algoritmo crea un vero e proprio inventario di tutti gli “eventi” che si sono verificati su Facebook per mano delle persone presenti nella tua cerchia di amici (o di cui i tuoi amici sono stati protagonisti) o per mano delle pagine che segui. Quindi genera una notizia per ogni evento (ad esempio, quando sulla home visualizzi un video di una pagina che non segui ma che è stato commentato da un tuo amico)
  2. SIGNALS
    Valutando tutti i dati a disposizione, l’algoritmo seleziona eventi/notizie cui potresti essere interessato. Per farlo, valuta i tuoi segnali, ovvero il grado di interesse manifestato in precedenza verso l’argomento della notizia (se quel contenuto è afferente i tuoi hobby principali o simile ad altri contenuti con cui hai interagito in passato), verso la persona che ne è responsabile (se ad esempio è un familiare, un collega o un amico con cui non ti relazioni da molto tempo)

    I “signals” sono di contesto e di contenuto.

    Di contesto sono i segnali legati all’orario e al luogo da cui ti connetti, dal dispositivo che stai usando in quel momento (ad esempio alcune sponsorizzate potrebbero apparirti su smartphone ma non su desktop) e dal tipo di connessione con cui navighi.

    Sono invece di contenuto i segnali legati a persone o pagine coinvolte, interesse per l’argomento, freschezza del contenuto, eventuali feedback (reazioni, commenti) del contenuto. 

    Particolarmente importanti sono questi ultimi. I segnali di contenuto legati a feedback negativi (per esempio se un post viene spesso nascosto da chi lo visualizza) o positivi (reaction, condivisioni, commenti, chat scaturite dall’invio privato del contenuto)  sono detti “meaningful interactions” e sono nutrimento molto gradito dall’algoritmo.

    Queste interazioni sono le più preziose. Il tempo speso a visualizzare un video, la permanenza a leggere il post o a guardare la fotografia, commenti con risposte a seguire, reazioni e condivisioni sia in bacheca che in chat, sono quanto di più prezioso possa desiderare chi genera un contenuto se vuole aumentarne la portata organica – quindi non a pagamento tramite ads.

     

  3. PREDICTIONS
    L’algoritmo cerca di prevedere quali contenuti ti potrebbero maggiormente interessare. Previsioni se un video catturerà la tua attenzione, o se un link potrebbe indurti davvero a cliccare per visitare la pagina di destinazione, o se una foto susciterà una tua reaction.

    Queste previsioni, come già anticipato, non sono frutto di stregoneria, ma sono determinate dai precedenti segnali che, durante ogni tua singola sessione di navigazione e da qualsiasi device, avrai fornito all’algoritmo.

     

  4. SCORE
    Una volta capito quanto un contenuto potrebbe interessarti, l’algoritmo gli attribuisce un punteggio (non meglio identificato. Questo punteggio seppur costituisce l’ultimo step del “comportamento” dell’algoritmo, è decisivo sull’ordine di apparizione dei contenuti.

    Quando lancerai l’app dal tuo smartphone la tua home si aggiornerà e l’ordine con cui ogni contenuto ti verrà proposto durante lo scroll (quando fai scorrere in su il pollicione sullo schermo) sarà determinato dal score di ogni contenuto.

    Quest’ordine è influenzabile dall’utente. Ad esempio se segui una pagina puoi impostare le notifiche dei suoi contenuti in evidenza e richiedere all’algoritmo di fornirtele sempre per prime.
    Faccio così ad esempio con la mia squadra del cuore o con le pagine e community che trattano argomenti di marketing. In questo modo rimango aggiornato sulle cose che mi interessano prima di iniziare a visualizzare il sushi del mio collega o il selfie di mia cugina in vacanza in Grecia mentre io lavoro.

    Così si spiega come mai dopo qualche minuto speso a scrollare le news, capiti di chiedersi cosa stavamo cercando e perché, finendo per aggiornare nuovamente il feed e ricominciare dall’alto.

 

 

Un solo social, tante esperienze

Ecco perché ognuno di noi pur utilizzando lo stesso social, vive esperienze completamente diverse e visualizza contenuti diversi pur avendo cerchie di amici o colleghi in comune.

Facebook non ha reso noti tutti i segnali che l’algoritmo prende in considerazione. Si stima siano oltre centomila i fattori di valutazione.

Rimane certo il fatto che quante più interazioni ottiene un post, maggiore sarà la sua diffusione. Il successo organico di un post induce l’algoritmo a distribuirlo  su più home, seppure in posizione – ricordi lo score – diversa per ognuno.

 

Ora che sai queste cose…

Abbiamo semplificato parecchio ma queste informazioni adesso possono aiutarti a capire molte cose ma soprattutto a rispondere ai tuoi dubbi.

Perché vedi spesso i selfie dei tuoi amici più stretti?

Perché  i tuoi amici in chat criticano la foto di qualcuno che invece nella tua home non è apparso?

Ma soprattutto – se usi facebook per lavoro – perché i tuoi post hanno poche interazioni?

Evidentemente i tuoi contenuti non generano l’interesse desiderato e le reazioni giuste, per questo l’algoritmo li “penalizza” e li distribuisce sempre meno.

Se ad esempio hai sponsorizzato la tua pagina ottenendo migliaia di mi piace, ma i tuoi post non catturano, l’algoritmo ti attribuirà sempre score molto bassi. Al contrario se un tuo post con link ha pochi mi piace ma i click al link sono numerosi e il tempo di permanenza sul sito di destinazione è prolungato, l’algoritmo penserà – “ehi, questo link deve essere interessante per persone con queste caratteristiche!”, ed ecco che il tuo post potrebbe avere un’ottima portata seppur con poche interazioni.

Ecco quindi cosa è bene che tu faccia e alla svelta per cominciare a raccogliere frutti sui social.

Parti dalla convinzione che su Facebook servono tempo, perseveranza e chiarezza d’idee. L’algoritmo premia l’impegno nel tempo.

  1. Smetti di parlare di te e dei tuoi prodotti, smetti di scrivere o postare cose che interessano te e comincia a conoscere maggiormente i tuoi clienti ideali. In questo modo inizierai a parlare, scrivere, fotografare e documentare cose che piacciono a loro – non necessariamente proprie del tuo business ma afferenti – suscitando così la loro attenzione. All’inizio potrebbero iniziare a spendere qualche secondo in più suoi tuoi post, dopo qualche tempo potrebbero iniziare a interagire lasciando timidamente un mi piace, e con il crescere di questa “relazione” iniziare a commentare e a dire la loro. Ad esempio se gestisci la pagina di un negozio di articoli sportivi, attingere dai risultati degli atleti italiani coinvolti in competizioni internazionali potrebbe offrirti contenuti sempre freschi e di interesse pubblico, legati per argomento al tuo business. Chi acquista i tuoi prodotti sportivi dovrà necessariamente essere uno sportivo. I tuoi aggiornamenti sulle competizioni potrebbero interessarlo notevolmente più che la qualità dei tessuti delle tue t-shirt, almeno all’inizio.

  2. Crea contenuti di qualità. Devono essere fruibili dal tuo pubblico, chiari e di buona fattura. Utilizza foto ben fatte anche se non professionali, utilizza i video ma fai in modo che siano girati bene e con mano ferma (potresti utilizzare uno stabilizzatore o un qualsiasi cavalletto). Scrivi post brevi ed efficaci, se lunghi fai in modo che abbiano un ritmo piacevole. Elimina il superfluo e vai al sodo. Utilizza un tono di voce appropriato per il social ma sempre in linea con il tuo target. Lascia i “gentile cliente” nel cassetto delle cose che non devono mai finire sui social. Le etichette vanno necessariamente riviste e smussate in un social network.

  3. Evita di fare “click baiting”, è una pratica che all’algoritmo non piace affatto. Evita frasi come “metti mi piace e condividi” o “commenta per ottenere …”. Le richieste dirette di interazione penalizzano il tuo post e avrai prodotto contenuti buoni ma inefficaci.

  4. Non pensare di poter fare business sul social senza investire sulle Facebook Ads.

    Per le pagine è una conditio sine qua no. Non mi dilungherò su come e cosa sponsorizzare perché argomento molto corpulento.

    Sappi però che la portata dei tuoi contenuti e la possibile conversione di utenti in clienti, è data da un’eccellente lavoro di engagement organico, completato e raffinato da una strategica e mirata attività di ads.

 

In conclusione

 

Sappi che se hai letto con attenzione l’articolo adesso ne sai molto più di qualsiasi avventore inconsapevole di Facebook.

Hai appena fatto un balzo, passando dalla parte di chi genera – o vuole generare – contenuti, e lasciando quella di chi li subisce e basta.

Sei come uno spettatore a teatro che oltrepassa le quinte e sbircia tra i camerini degli attori e gli ingranaggi degli effetti scenici.

Ora sai che puoi filtrare, nascondere, oscurare, mettere in evidenza i contenuti. E non devi più subire passivamente le scelte dell’algoritmo. Puoi influenzarle, anzi, determinarle.

Si, c’è ancora molto altro che non sai, ma questo è il primo step. Il più importante.

Se vuoi sapere altro, scrivimi.

Ah, un’ultima cosa…

Per ragioni che potrai immaginare, Facebook e Instagram si comportano in modo molto simile. Segui queste indicazioni anche per l’applicazione sorella di Facebook.

 

 

 

 

Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.


bbadv-microfono-articolo-asmr

L’ASMR è definito anche “orgasmo mentale”: cos’è e come viene usato nel marketing

L’ASMR È DEFINITO ANCHE “ORGASMO MENTALE”: COSA È E COME VIENE USATO NEL MARKETING

È uno stato di piacere mentale generato da stimoli visivi e uditivi: ecco come e perché i brand hanno deciso di usare l’ASMR.


In questo articolo troverai:


Cosa è un ASMR?


Stavi cercando informazioni sull’ASMR pensando di utilizzarlo in modo originale nelle tue strategie pubblicitarie? ho una cattiva notizia: potresti essere in ritardo!

Questa tendenza è già in atto da un po‘ di tempo.
La parola ASMR è tra i primi cinque termini di ricerca su YouTube, con 2,9 milioni di ricerche mensili – secondo ahrefs.com, anche se bisogna ammettere che non sono molti i marchi che lo hanno integrato nella loro comunicazione.

Secondo Google, le ricerche su YouTube con la parola chiave ASMR sono quadruplicate negli ultimi 4 anni e i video più famosi sono stati visti più di 20 milioni di volte.

Basta digitare su una qualsiasi barra di ricerca il termine ASMR per capire immediatamente in cosa consiste questa tendenza.

ASMR è l’acronimo di Autonomus sensory meridian response, letteralmente Risposta autonoma del meridiano sensoriale.

L’ASMR non è altro che una tecnica di ripresa il cui unico scopo è quello di infondere una sensazione di rilassamento.

Il contenuto mira a precisi trigger, ovvero stimoli di varia natura – uditivi, visivi, cerebrali, tattili – che hanno lo scopo di rilassare letteralmente lo spettatore e provocare sensazioni precise.

ASMR è inoltre un sostantivo inglese e rappresenta la sensazione di formicolio sul cuoio capelluto e lungo la schiena, combinata con una sensazione di benessere che le persone provano in associazione a specifici suoni


Solo da pochissimo tempo il fenomeno ASMR è diventato oggetto di studio.

In un recente articolo di Vanessa Mitchell (CLICCA QUI per leggere l’articolo), il Dr. Richard ha concluso che:

le aree cerebrali attivate durante l’ASMR sono simili a quelle attivate durante i comportamenti di legame e cura, come i genitori che si prendono cura dei bambini o che ti accarezzano i capelli.


Dal punto di vista del marketing si tratta di provocare sentimenti positivi e piacevoli.

L’ASMR aiuta le persone a creare uno “spazio mentale felice” e in quel momento, se si è in grado di associarlo ad un prodotto, si creano legami positivi e duraturi con il proprio marchio.

 

Come usare l’ASMR nelle strategie di content marketing?


È curioso pensare come molti marchi abbiano impiegato così tanto a comprendere che utilizzando gli ASMR possono promuovere i loro prodotti e creare un’esperienza positiva.

Fortunatamente, hai ancora tempo per catturare l’onda prima che la tendenza diventi una consuetudine e perda il suo fascino.

C’è chi sostiene di non provare questo tipo di sensazione, in realtà è scientificamente provato che possano essere provate sensazioni di rilassamento e di benessere e per tale motivo i brand hanno visto in questo fenomeno un’ottima opportunità per coinvolgere i Millennials e la Generazione Z.

Invece di concentrarsi solo sulle caratteristiche di un prodotto, un approccio ASMR ti consente di pensare al tuo prodotto da una prospettiva sensoriale. Un po’ come se l’utente “provasse” il tuo prodotto dallo schermo.

Il vantaggio di questi video per i brand dipende dal fatto che, mentre l’utente viene coinvolto a livello sensoriale, il prodotto viene presentato con un timing perfetto, ossia in un momento in cui il consumatore tende a essere in uno stato di rilassamento e di benessere, potendo in questo modo incidere su come il brand viene percepito.

 

BBADV e la produzione PREZZEMOLO & VITALE


L’ASMR trova una delle sue migliori applicazioni nel settore “food”.


Quando in fase di brainstorming stilavamo possibili idee per la nuova comunicazione della catena di Supermercati Prezzemolo & Vitale non abbiamo avuti dubbi: la nuova strategia doveva prevedere la selezione dei migliori prodotti e l’applicazione della tecnica ASMR per presentarli al pubblico.

L’ASMR della Mozzarella di Bufala Campana è la prima realizzazione di una serie che descriveranno la linea di prodotti “Le eccellenze di Prezzemolo & Vitale”.

 

L’ASMR e i grandi marchi


Esistono molti modi creativi per incorporare ASMR nei propri contenuti sui social media.
Ecco alcuni esempi:

1. IKEA • Oddly Ikea


In cima alle case studies non poteva che esserci Ikea. Il gruppo svedese ha creato uno spot ispirato all’ASMR che dura più di venti minuti.
Intitolato “Stranamente IKEA”: IKEA ASMR, è narrato da una giovane donna invisibile; parla lentamente, dolcemente e deliberatamente dei prodotti Ikea che sarebbero adatti per un dormitorio del college.




Lo spot video conta, ad oggi, 2,5 milioni di visualizzazioni connettendo perfettamente il marchio a livello sensoriale con i suoi clienti fedeli.

2. BURGER KING • #eatlikeandy


Si tratta di una clip di 45 secondi per promuovere la catena di fast food durante la notte del SuperBowl.
Particolarità: lo spot è stato girato nel 1982 e rimasto inedito fino ad adesso. La clip è stata mandata nuda e cruda proprio come fu girata.
Unica aggiunta un hashtag che recita: #eatlikeandy.




Nel video Warhol apre una busta del Burger King, tira fuori il suo hamburger e spreme un po’ di ketchup sulla carta.
Poi prende in mano il suo panino, lo intinge nel ketchup e lo addenta guardando dritto verso la telecamera. Il tutto viene accompagnato da un silenzio assordante riempito soltanto dall’immagine di Andy Warhol.

3. LINCOLN • Bull” Matthew McConaughey and the MKC


Il video è caratterizzato da un vento sibilante e musica rilassante mentre McConaughey, recita un incontro con un toro su un tratto isolato di autostrada.




Nessuna scarica di adrenalina, solo la “rassegnazione” si McConaughey di trascorrere più tempo all’interno di un a lincoln

4. CHINESE SIHUA DOVE • Angelababy


La campagna pubblicitaria sul cioccolato Sihua Dove è stata rilasciata solo pochi anni fa ed è un ottimo esempio del potere sensoriale dell’ASMR.
Il video presenta i classici suoni ASMR come l’apertura dell’involucro della barretta lo scatto di un quadrato di cioccolato.



In conclusione


Prossimamente molti spot pubblicitari continueranno a integrare gli ASMR per offrire agli spettatori un’esperienza rilassante e serena.

Qualcuno potrebbe pensare che sia un modo per raggirare il pubblico. Tuttavia quando si parla di ottimi prodotti, di qualità eccellenti, è legittimo cercare il modo più efficace possibile per comunicare al pubblico tutte le caratteristiche di un prodotto.

D’altra parte è ormai noto anche ai non addetti ai lavori, la pubblicità è tutta una questione di percezione.

L’ASMR può davvero creare una potente connessione con il marchio.

La sfida per gli esperti di marketing è sempre stato cercare di trasformare la pubblicità in esperienza.

Come far “sentire” qualcosa al pubblico di fronte ad un contenuto pubblicitario?

L’ASMR sembra essere la risposta giusta.


Gabriele Brancatello

Ciao, sono Gabriele, uno dei due bbrothers.
In America sarei un full-stack marketing manager.
In Italia aiuto le aziende a creare la propria identità, raccontare la loro storia e comunicare con i propri clienti.
Il mio obiettivo è riuscire a fornirti gli strumenti che ti permetteranno di acquisire autorevolezza sul tuo mercato di riferimento. A volte ci riesco, altre pure!


bbadv-unicredit-articolo-copertina

UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK

UNICREDIT ABBANDONA I SOCIAL NETWORK

L’annuncio è arrivato Venerdì 3 Maggio e in poche ore è diventata notizia discussa in numerosi gruppi di marketing digitale.  Passo falso o innovazione? Il web si spacca schierandosi per l’una o per l’altra previsione.

Un fulmine a ciel sereno.
Probabilmente per molti non è stata una notizia degna di nota ma, per gli addetti ai lavori, è l’input perfetto per infuocare le community durante tutto il weekend.

Unicredit, attraverso un post su Facebook, ha annunciato che a partire dal 1 Giugno 2019 abbandonerà definitivamente i canali social – specificando Facebook, Messenger e Instagram – in favore di strumenti proprietari.

 

La motivazione, che pure meriterebbe comprensione e consenso, pare in realtà nascondere altro. 

 

Valorizzare i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato e di alta qualità

Nel giro di poco più di 15 minuti il post è stato condiviso in almeno 7 gruppi a cui sono iscritto.
Immediatamente si sono create due fazioni.
Da una parte i nobili paladini di una scelta che apparentemente vuole tutelare i dati sensibili dei propri correntisti, dall’altra i detrattori di una scelta poco lungimirante e anacronistica.

 

Ho sentito immediatamente il desiderio di scrivere qualcosa al riguardo ma mi sono concesso 48 ore per riflettere a fondo su una questione più complessa di quel che i social media manager di Unicredit vorrebbero a mio avviso far percepire. 

 

LA MOTIVAZIONE

Un testo sibillino, formale ed equilibrato ma che nasconde quasi certamente riflessioni aziendali lungimiranti.
Uno di quei testi pensato e pesato più volte con il desiderio di dire una verità fastidiosa ma elegantemente, magari lanciando un messaggio a qualcuno.

 

Valorizzare i canali digitali proprietari […]

Unicredit abbandonerebbe i social network per dare maggior peso alle proprie app e ai canali di comunicazione sviluppati.
Mi pare legittimo che una società che investe ingenti risorse nello sviluppo di strumenti di customer care e che compie sforzi enormi per tutelare la privacy e la massima sicurezza nelle operazioni online, voglia accendervi i riflettori e veicolare quanto più possibile l’attenzione dei suoi correntisti, inducendoli a utilizzarli e trovarvi risposte esaustive ad ogni dubbio.

A onor del vero un correntista che ricorre ai social per mettersi in contatto con la sua banca, potrebbe cadere preda delle ads e dei contenuti promossi da altri istituti bancari. Per questo ha senso cercare di spostare gli utenti su “porti più sicuri”.

[…] per garantire un dialogo riservato e di alta qualità”. È la parte più interessante del post.

Da una parte è vero che Facebook è stata oggetto di ben note vicende relative all’illegittima dispersione di dati sensibili dei suoi utenti (Dopo l’F8, però qualcosa sta cambiando, approfondisci qui).
Proprio a seguito dello scandalo Cambridge Analytica, l’amministratore delegato di Unicredit Jean Pierre Mustier aveva annunciato che la sua società avrebbe interrotto qualsiasi attività promozionale sul social.

Credo però che per dialogo riservato, nel post si faccia riferimento ad una prassi che ho potuto constatare sbirciando tra i commenti ai post della pagina.

 

Qualsiasi post pubblicato sulla pagina, che faccia riferimento ad eventi musicali, istruzioni per la compilazione di moduli bancari o eventi sportivi o culturali di cui Unicredit è sponsor, ecco che decine di correntisti ne approfittano per muovere pubblicamente lamentele sulla qualità dei servizi (aggiornamenti app, call center, ricevimento in filiale) o per richiedere assistenza rispetto a talune funzioni dell’home banking o procedure bancarie.

In alcuni commenti si evince chiaramente che molti utenti scrivono senza rendersi conto della differenza che intercorre tra un messaggio privato e un commento, rischiando – ma non escludo che sia accaduto in post al di fuori della mia veloce ricerca – di fornire dati sensibili e delicati, o peggio codici di sicurezza, a chiunque leggesse i commenti.

Sappiamo benissimo infatti che l’utilizzo dei social è uno degli argomenti più controversi dei nostri tempi e non sono affatto poche le persone che non hanno ancora compreso fino in fondo quanto pericolosi possano essere i social network e quanto influenzino la vita reale.

La vita del team che gestisce la pagina non deve essere semplice. In uno scenario come questo, i social media manager di Unicredit devono essere molto aziendalisti, esperti delle procedure e di tutti gli strumenti bancari, con conoscenza profonda di tutti i servizi e prodotti. Insomma, non certo qualcosa di scontato per un social media marketer.

Posso dunque immaginare che garantire un’assistenza social veloce ed esaustiva costringa la Banca ad affidare le interazioni a personale estremamente qualificato, con ingenti investimenti.

Tuttavia, non pare ottenere risultati che giustifichino lo sforzo. I commenti infatti sono ricchi di critiche e lamentele riguardo i servizi. Problemi che andrebbero discussi privatamente, al telefono con un operatore specializzato. Invece ogni sciocchezza diviene motivo di scontro pubblico.

Certo non la miglior pubblicità possibile.

Ecco dunque cosa – probabilmente – vuol dire “dialogo riservato e di alta qualità”.

Parafrasando potrebbe suonare più o meno così.

“basta sbandierare qualsiasi problema ai quattro venti, per fare assistenza efficace ed efficiente valorizziamo i canali proprietari e concentriamo su questi tutti gli sforzi economici aziendali e smettiamo di far sapere a tutti ogni volta che qualcosa non funziona”

Possiamo biasimare chi cerca di offrire di più ma raccoglie solo problemi? 

La mia riflessione sembra trovare conferma in un dato interessante in cui mi sono imbattuto durante la ricerca. 

 

Pare che Unicredit occupi uno degli ultimi posti nella classifica dei Reputation Awards 2019, che analizza la reputazione online dei marchi più noti. (clicca qui per consultare la fonte)

 

SFORZI ECONOMICI

Chi come me lavora al marketing digitale sa quanto oneroso possa essere per una piccola impresa fare social marketing.

Personale specializzato che ne conosca le logiche e gli algoritmi, direttori creativi, analisti, strateghi pubblicitari, programmatori, videomakers e animatori.

Professionisti pronti a far fronte a crisi digitali, critiche e attacchi in grado di diventare bombe mediatiche, in misura direttamente proporzionale alla reputazione aziendale.

A questo aggiungiamo l’utilizzo di tools specifici – e onerosi – per una gestione multicanale congiunta ed efficace. Completiamo con ingenti oneri legati alle Facebook Ads e non solo.

Adesso moltiplichiamo tutto questo per una pagina come quella di Unicredit, i cui contenuti sono di eccellente qualità, tanto nel visual quanto nel copy.

Quante risorse richiede la gestione di una pagina come quella di Unicredit?

Alla luce delle precedenti riflessioni, quanto di quelle risorse sono ben spese?

 

Leggendo i commenti ai post ho velocemente realizzato che tutto potrei desiderare di essere, tranne che il social media manager di Unicredit.

 

E LA REPUTAZIONE DIGITALE?

Non sono certo che lasciare i social sia una mossa che porterà vantaggi.

Nonostante ciò non riesco a ritenere del tutto infondata la decisione di Unicredit.

Le mie non sono che supposizioni, le motivazioni che hanno portato ad una scelta così drastica potrebbero essere ben più numerose e profonde.

Potrebbe essere fondata ad esempio la voce che vorrebbe Unicredit, e molti altri istituti bancari, sul piede di guerra nei confronti di Facebook, che pare stia sviluppando un metodo di pagamento online che darebbe una mazzata agli interessi digital delle banche.

Tornando alle interazioni, non sarebbe sufficiente limitare la funzione dei messaggi alla pagina o quella di commentare i post. La pagina sarebbe destinata comunque al fallimento. Niente interazione, niente awareness.

Dunque, tra meno di un mese Unicredit completerà un’azione che oggi appare anacronistica, totalmente in contrasto con il crescente sviluppo dei social e del digitale.

Un mantra del marketing consiglia di farsi trovare in quei luoghi in cui i clienti amano trascorrere il loro tempo. I social sono sicuramente uno di quei luoghi.

C’è da chiedersi quanto valga la pena assecondare la superficialità e la scarsa consapevolezza degli utenti o sacrificare la loro sicurezza sull’altare del progresso social.
Cosa accadrà ad Unicredit quando non sarà più social friendly?
Qualcuno si accoderà o assisteremo presto a un dietrofront?

 

 

Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.


bbadv-facebook-down-day-2019

FACEBOOK DOWN DAY - QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO

 

FACEBOOK DOWN DAY - QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO

Mentre l’intera suite di Facebook andava in panne, la concorrenza aveva la fila alla cassa.
Cosa accade alla tua azienda quando causi un disservizio ai tuoi clienti lasciandoli senza supporto?

È stato prontamente ribattezzato il “Down Day”. Io amo chiamarlo Mercoledì Nero di Zuckerberg.
Si lo so che può sembrarti esagerato un riferimento diretto alla crisi di del 1929 a New York. Ma sei sicuro di sapere cosa ha generato sul tessuto sociale ed economico una giornataccia dei server di Facebook?

AH! C’È ANCHE TELEGRAM

Pare che mentre Whatsapp si prendesse una piccola “pausa” - da leggersi blackout - le persone abbiano pensato bene di vedere più da vicino come funzionasse Telegram.

Quest’ultimo in poche ore ha acquisito circa 3 milioni di nuovi utenti.
Telegram da sempre ritenuto l’alternativa a Whatsapp - se conosci davvero Telegram sono sicuro che ti sarà venuta la pelle d’oca leggendo questa affermazione - ha registrato un aumento di registrazioni alla piattaforma che oltre ad offrire un servizio di messaggistica al pari di altre app, consente di rimanere aggiornati su brand e aziende attraverso i “canali” o trasferire documenti e file con prestazioni migliori rispetto ad altre applicazioni.

LET’S TWEET !

Fatto fuori Facebook per un po’, con Instagram i cui feed risultavano bloccati, ecco che Twitter ha vissuto un gran momento di gloria.

Il social dei cinguetti ha vissuto ore di celebrità divenendo per un giorno il social più utilizzato. Soprassediamo sul fatto che fosse l’unico funzionante?

Persino Zuckerberg ha dovuto comunicare attraverso il social avversario per informare media e utenti sul temporaneo disservizio.

CHI PAGA IL DANNO

Pare che Codacons si sia immediatamente attivata per ottenere risarcimenti dei danni patiti dalle aziende e dagli utenti che giornalmente sviluppano i loro contenuti o gestiscono le relazioni con i propri clienti sulle piattaforme oggetto del disservizio.

Pensaci, quante aziende sviluppano customer care attraverso Messenger, quanti funnel di vendita diretta sono sviluppati su Facebook, quante relazioni di lavoro ogni giorni si tengono attraverso Whatsapp?

Codacons ha formalmente invitato gli utenti a contattarla per ottenere risarcimento a danni materiali patiti durante le ore di blackout.

GOOGLE, AIUTAMI TU

Non era mai accaduto che Facebook vivesse una lunga serie di disservizi così duratura. Oltre 5 ore di rallentamenti e malfunzionamenti che hanno coinvolto anche Oculus, l’azienda - sempre di Mark - dedita alla ricerca e allo sviluppo di servizi di realtà aumentata.
Persino tra le query di google sono balzate in cima alla classifica parole chiave legate al disservizio.
Migliaia di utenti in cerca di spiegazioni e soluzioni per i numerosi errori di caricamento delle app.

DOVE SONO I MIEI SOLDI?

Lo avranno pensato i manager a capo dell’intera suite di Facebook Inc.?
Pare che il danno si possa stimare - di certezze in questi casi non se ne possono avere - in circa 110 milioni di dollari in azioni.
I disservizi di queste piattaforme rimbalzano, dalle campagne pubblicitarie attivate prima del blackout, alle attività pubblicitarie degli influencer, con conseguenze sul lavoro di decine di migliaia di social marketers.
Pensiamo alle dirette su Facebook Watch, canale scelto da molte società per divulgare contenuti video, che chiaramente hanno subito gli effetti del down day sulla trasmissione di eventi irripetibili.

QUANTO COSTA UN DISSERVIZIO?

Non amo cavalcare questo genere di notizie solo per ottenere qualche visita in più al sito. In realtà ho trattato l’argomento perché mi è sembrata la risposta perfetta ad una domanda che faccio ad ogni nuovo cliente che incontro o a tutti quegli imprenditori che partecipano ai miei workshop e sostengono di non aver bisogno di un sito internet perché “hanno Facebook”.

Cosa accadrebbe se Facebook smettesse all’improvviso di funzionare? Cosa accadrebbe ai tuoi profitti, al tuo indotto di nuovi clienti, se tutto il tuo marketing fondato su un solo canale, crollasse senza preavviso?

Quando lo domando, puntualmente ricevo come risposta affermazioni come “è impossibile” oppure “Facebook è troppo potente” o ancora “ormai Facebook fa parte della vita di tutti”.

Ecco, il Down Day di Facebook è la dimostrazione che non si può e non si deve fare a meno di un sito internet e di una strategia di marketing basata sulla multicanalità on e off line. Dimostra che non si può veicolare prospect in store o sul sito solo e soltanto con un percorso Facebook-based. Dimostra che una buona inbound strategy va pianificata considerando stimoli multisensoriale, multilivello e multicanale.

Ci ricorda che un buon customer care e i servizi di assistenza possono essere velocizzati con servizi di messaggistica e chat, che tuttavia vanno affiancati al tradizionale supporto telefonico, che tanto rincuora chi ha bisogno di un contatto umano per sentirsi sostenuto.

Non dimenticando che oltre il web, le persone continuano ad esistere anche nella vita reale e che possono essere raggiunte al di fuori dello schermo del loro smartphone.


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-articolo-le-persone-lavorano-per-soldi

LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?

 

LE PERSONE LAVORANO SOLO PER I SOLDI?

Ormai la ggente lavora solo per lo stipendio a fine mese e non fa nulla di più di ciò che gli viene richiesto.
Anzi, a dirla tutta non lavorano neanche così bene, per questo motivo si meritano a stento lo stipendio.

Sto scherzando, su! Non fare quella faccia inorridita.

Le due G di gente avrebbero dovuto farti capire subito che sono in vena di esagerare un po’, cavalcando l’onda di un luogo comune di cui, probabilmente, anche tu sei stato vittima qualche volta.

Non vorrai mica farmi credere che in un momento di nervosismo e delusione tu non abbia pensato che i tuoi collaboratori fossero soltanto un gruppo di mercenari fedeli solo al bonifico di fine mese?

Beh, se non lo hai mai pensato… accidenti! Complimenti vivissimi.
Insomma, sto ancora cercando un imprenditore che non lo abbia pensato almeno una volta per giustificare un periodo non proprio positivo.
Capita che la produzione stenti, o le vendite rallentino in modo preoccupante.
Ed ecco che le risorse umane sono un ottimo alibi da tirare in ballo.

D’altra parte qualsiasi azienda fonda il suo successo sul buon lavoro delle sue risorse.

“Potrebbero fare di più”
“Non partecipano abbastanza”
“Non li sento coinvolti”

È facile davvero pensare che i collaboratori vivano l’azienda come un momento della propria giornata, e che finito l’orario di lavoro finisca il loro legame con gli obiettivi e le necessità dell’organizzazione, almeno fino al giorno dopo.

È davvero così?

Sarebbe sbagliato in fondo?
Si lo so, tu che sei imprenditore non puoi farlo.
A qualsiasi ora del giorno e della notte le tue responsabilità ti seguono fedeli, anche in bagno o sotto le coperto la sera.
Per un collaboratore invece il lavoro può e dovrebbe essere qualcosa da poter interrompere, per tornare a casa e dedicarsi alle proprie passioni e alla propria famiglia.

Si lavora per vivere, non si vive per lavorare.
È un motivetto che circola spesso tra lavoratori.
Puoi biasimarli?

È naturale che il tuo legame con la tua azienda sarà sempre superiore a quello di qualsiasi collaboratore.
Questo però non li rende meno meritevoli della tua stima.

I collaboratori hanno bisogno della tua approvazione. Devono sapere di essere importanti per te, altrimenti perderanno interesse verso gli obiettivi del tuo business.

Quando si parla di motivazione del personale spesso si pensa ad attività eccentriche ed esagerate al fine di esaltare le persone.
In realtà la prima vera attività di team building e motivazione delle risorse umane è la stima del datore di lavoro.

Nessuno di noi vuole impegnarsi per qualcuno che non prova riconoscenza e stima.

Qualsiasi risorsa umana, lavativi seriali a parte, ha bisogno di trovare nell’azienda un’ambiente in cui confrontarsi alla pari, crescere personalmente oltre che professionalmente e costruire relazioni solide.

Appartenenza

In un’epoca social come può un’azienda non promuovere le relazioni.
I tuoi collaboratori conoscono i tuoi canali di comunicazione?
Partecipano attivamente e spontaneamente alla comunicazione verso l’esterno volta ad aumentare la brand reputation?
Prendono parte alle attività pubbliche del tuo brand, condividono contenuti social, spendono parole positive nelle loro cerchie verso il tuo prodotto?
I tuoi collaboratori sono i tuoi primi clienti?
Fanno uso dei tuoi prodotti o servizi?
Credono in ciò che producono?

Nessuno di noi è disposto a dedicare tempo e credibilità a qualcosa che non ama.
È fondamentale che i tuoi collaboratori sviluppino senso di appartenenza affinché sentano l’esigenza di essere allo stesso tempo ambassadors del sistema di valori che rappresentano attraverso il tuo marchio.

Il senso di appartenenza fa sì che ognuno di noi si trasformi volontariamente in paladino di una causa.

Se attrai persone interessate al denaro e poco altro, è possibile che tutta la tua comunicazione sia incentrata sul fatturato o sul massimo profitto.
La ricerca della redditività che è caratteristica di ogni business, ha per caso oscurato i valori umani della tua organizzazione?

Se comunichi solo attraverso obiettivi, incentivi, benefit a fatturato, premi produzione, sicuramente rientri tra quegli imprenditori che si sono lamentati o lo faranno presto, per collaboratori eccessivamente cinici e distaccati.

Rendili Felici

No, per carità. Non devi mica indossare una parrucca e fare ridere i tuoi colleghi.

Ma cavolo, a volte basta così poco per migliorare la vita di una persona.
Più supporto tecnico, strumenti di lavoro più agevoli e innovativi, una parete in meno o uno spazio confortevole per la pausa caffè.
Un Contest interno, o un’attività ludica fine a se stessa organizzata tra colleghi.
Ancor più banale, a volte migliorare l’areazione degli ambienti di lavoro genera maggiore entusiasmo.

Le esperienze positive inaspettate sono la chiave della felicità. Così come la condivisione degli obiettivi e la gratificazione al raggiungimento degli stessi.

Sai cosa ha fatto Facebook qualche anno fa?
Era prassi far trovare sulla scrivania di ogni nuovo collaboratore un piccolo libretto dalla copertina rossa, al cui interno erano contenute frasi e immagini ad alto impatto emotivo e motivanti.
Una grandissima azienda ma un piccolissimo gesto. Non dirmi che non potresti permettertelo.

Starbucks ad esempio incentiva qualsiasi dipendente agli studi universitari, finanziandoli attraverso un progetto interno.

Ikea omaggia i propri dipendenti di un buon acquisto nel caso in cui si sposino o inizino una convivenza, per approvarne le scelte familiari più importanti.

I dirigentii di Netflix, non a caso la maggior azienda di web streaming, sono tra i più felici al mondo. Godono di ferie illimitate a patto che portino a termine i loro impegni, e possono acquistare senza limiti di spesa purché le spese siano chiaramente a vantaggio dell’azienda.
Credi davvero che un colosso mondiale sottovaluti azioni come queste?

Molte grandi aziende americane hanno introdotto lo Chief happiness officer, nient’altro che un responsabile della felicità, incaricato di cogliere le esigenze e gli stati d’animo dello staff.

Potresti essere tu il responsabile della felicità della tua azienda, provando ad abbandonare qualche preconcetto e iniziando ad osservare il comportamento del tuo staff, appurando chi e perchè si impegna nelle proprie mansioni e valutando quanto le vostre motivazioni siano realmente compatibili.

Accerchiati di persone passionali, competenti e ambiziose. Condividi con loro le gioie e i successi del lavoro in gruppo.


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-copyright-articolo

Paternità di un’opera. È giusto firmare i propri lavori?


PATERNITÀ DI UN'OPERA. È GIUSTO FIRMARE I PROPRI LAVORI?


Siamo innegabilmente in un momento storico in cui la digitalizzazione ha dato l’impressione che tutto sia di tutti, che l’informazione non abbia padrone (se mai ne abbia avuto uno) e che chiunque possa utilizzare qualsiasi cosa per i propri scopi.

SPOILER: ARTICOLO AD ALTO CONTENUTO DI OPINIONI PERSONALI.

È il lato oscuro dei motori di ricerca.
Digiti qualche parola.
Ottieni siti, articoli di blog, interviste, citazioni, fotografie e video.

Gran parte dei materiali depositati sul web, quindi sui numerosi social network e sui siti delle aziende, sono copie di copie che vengono di volta in volta acquisite - sempre grazie ai motori di ricerca - e riutilizzate. 

Un plauso invece alle aziende che si autoproducono con grafici, copywriter e sviluppatori interni, o che si affidano a società di marketing per farlo. 

Sono aziende che hanno ben chiaro il valore del marketing e della strategia prima della vendita del prodotto.
Come si fa dunque a stabilire la paternità di un contenuto in una giungla di informazioni quale è il web?
Perché una società di marketing dovrebbe (o non dovrebbe) firmare un contenuto prodotto per i clienti? E quando può essere ritenuto lecito farlo?

FIRMARE O NON FIRMARE?

Partiamo dalla considerazione che il web non offre risposte chiare

Al di là dei diritti d’autore e del copyright, argomenti spinosi che avrò cura di non aprire, non esiste un riferimento chiaro e univoco riguardo alla legittimità da parte di una società nel firmare un progetto grafico, una locandina, uno spot video. 

Siamo nell’ambito dell’uso comune. 

Si fa riferimento a chi e quanti prima lo abbiano fatto e in che modo. 

Rimaniamo nel territorio dell’autodeterminazione, di una scelta personale che ogni società è libera di fare, in funzione dei risultati che vuole ottenere. 

E le scelte - tutte le scelte - sono opinabili in quanto tali e mai una potrà mettere d’accordo tutti.

É un argomento apparentemente semplice che in realtà costringe ad una riflessione su due livelli. Quello estetico e quello etico. 

CREDIBILITÀ

Il lavoro di marketing non è per tutti. 

Il tempo dei consumatori “creduloni” che attribuivano ad un brand ogni azione del brand, ogni produzione e ogni risultato - diciamocelo - è quasi finito.

L’enorme grado di consapevolezza dei millennials rispetto ai concetti di reputation o di pubblicità, fa sì che sia ormai consolidata nei consumatori la consapevolezza che un brand è costruito da azioni simultanee.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo la produzione agli operai, i conti all’amministrazione, i piatti agli chefs, il social ai social media manager.

Dunque - ricordi quanto ti ho detto che avresti trovato molto delle mie personali opinioni? - sono quasi certo che qualsiasi consumatore minimamente dotto rispetto alle dinamiche digitali, sia consapevole che i testi di un sito internet ben fatto, o i post di un profilo social aziendale, non siano curati direttamente dall’imprenditore, ma da qualcuno che lo rappresenta più o meno fedelmente. 

Può un bravo imprenditore della ristorazione essere anche un esperto graphic designer o SEO specialist? 

Quantomeno improbabile…

E perché mai il fatto che un imprenditore intelligente che abbia saputo delegare queste funzioni ad un addetto esperto, dovrebbe infastidire i suoi clienti, anche i più affezionati?

Dunque un’opera firmata, che sia un contenuto social, un sito o una semplice locandina, a mio avviso non toglie nulla né al prodotto né all’organizzazione oggetti della comunicazione.

E se da cliente scrivi ad una pagina convinto di parlare all’imprenditore, ti suggerisco di scrivergli un più amichevole messaggino o di cercarti il suo profilo personale.

ETICA CUM GRANO SALIS

Fatto pace con il pensiero che il marketing sta ai marketers e che non vi è nulla di male, anche se dovesse essere noto pure ai consumatori, rimane la quaestio scomoda riguardo alla legittimità di un’agenzia di firmare un’opera su commissione. 

Mi verrebbe banalmente da dire che tutto il mercato si basa sulla pubblicità e che, in assenza di diversi accordi contrattuali, nulla vieta a qualsiasi agenzia di indicare la paternità di un opera anche per ovvi e mai celati fini pubblicitari.

D’altra parte ad apprezzare una campagna pubblicitaria o una strategia non sono solo i consumatori che la subiscono, ma spesso maggiormente gli addetti ai lavori e altri imprenditori. 

Per non parlare del piacere di qualsiasi artista nel vedere realizzata, esposta ed apprezzata una sua creazione. 

Lo strumento più efficace per una società di marketing per farsi notare è, appunto, firmare un’opera ben fatta. 

Advertising | SushiStation Palermo | bbadv | 2019

Questo chiaramente non legittima il professionista ad apporre il proprio nome a caratteri cubitali, o dimenticare la “gerarchia” tra le dimensioni di una firma e il messaggio che deve passare attraverso l’opera stessa. 

Per cui - eccoci, siamo di nuovo ad una mia personale opinione - una firma non può far male a nessuno ammesso che in alcuna misura penalizzi l’efficacia del contenuto o del messaggio. 

FIRMIAMO TUTTO ?

Sono assolutamente a favore del firmare un’opera, fatte le dovute eccezioni. 

Un brand internazionale potrebbe al contrario subire un danno se si palesasse troppo apertamente che le proprie strategie di marketing sono affidate ad altri. 

Si presuppone infatti che le multinazionali abbiano fior fior di professionisti al loro servizio e che siano ben consci non solo dei valori che rappresentano, ma anche di quali siano i mezzi migliori per comunicarli. 

Ecco dunque il caso in cui apprezzo che un progetto rimanga “anonimo”. 

Va da sè che nella fattispecie i costi che il cliente dovrà sostenere saranno superiori proprio in virtù di una cessione praticamente totale di ogni diritto o attribuzione di paternità di quell’opera. 

Il secondo caso in cui non ritengo necessario che un professionista firmi una realizzazione è per quelli che definisco “contenuti leggeri”, ovvero testi e grafiche di breve e semplice applicazione, ad esempio quei post per social network finalizzati all’acchiappa reach, o contenuti emozionali che meritano di poter vivere la loro breve ma intensa vita in pace e nell’anonimato.  

E se non sai cosa sia un’acchiappa reach, allora è il caso che deleghi il tuo digital marketing ad altri. 

L’efficacia di un contenuto nel diventare più o meno virale/diffuso è data anche dalla sua presunta istantaneità creativa. 

Un post in cui sia palese un ragionamento profondo o una strategia, rischia di essere inconsciamente penalizzato dal pubblico stesso. 

A OGNUNO IL SUO

Può infastidire un consumatore sapere che la comunicazione online del suo brand del cuore non è gestito dal brand del cuore ma da un addetto specializzato. 

Si se… qualcuno sperasse di parlare con Carlo Cracco commentando i post di Carlo Cracco, o di discutere di politica con Salvini commentando i suoi post.
O Ancora di parlare con una Girella interagendo con i post della nota merendina. 

No se… riesci ad apprezzare che un bravo ristoratore sia conscio che una comunicazione professionale non è il suo mestiere, o che una nota marca di birre affidi ad un social media manager il compito di trollare i fans della pagina felici di lasciarsi trollare, consapevoli  tuttavia che non è stata né la birra né tantomeno il signor birraiolo. 


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-articolo-kpi

Cosa sono i "KPI" e perché sono importanti

 

Cosa sono i "KPI" e perché sono importanti

Lo vedi scritto spesso.
Hai partecipato ad alcuni corsi di aggiornamento sul marketing e il relatore ha detto che bisogna monitorare i KPI e apportare le dovute modifiche alla web campaign.
Tu hai annuito insieme al resto della platea. Non volevi mica che qualcuno pensasse che TU non conosci i KPI.

Tranquillo.

Non è grave. Puoi guarire subito, leggendo questo articolo fino in fondo.

PARLIAMO SEMPLICE

Sembrava una moda destinata a tramontare, e invece l’uso di acronimi e termini anglofoni continuano a illudere molti professionisti di poter apparire più preparati di quanto non siano realmente.

Qualche rigo più sù ad esempio potevamo scrivere campagna pubblicitaria sul web, ma vuoi mettere il gusto di scrivere web campaign e stupirti con un colpo ad effetto?

Parlavamo quindi dei KPI…

INDICATORE CHIAVE DI PRESTAZIONE

In economia aziendale - cito testualmente Wikipedia che, per la cronaca, potresti aver già visitato prima di finire qui sul nostro blog - un indicatore chiave di prestazione […] è un indice che monitora un processo aziendale.

In sostanza un KPI è un dato numerico che ti permette di valutare l’efficacia o l’efficienza di un’azione specifica o di un segmento della tua organizzazione.

Sapere quanti prospect attrai, quanti di questi si trasformano in clienti, attraverso quanti e quali step riesci ad effettuare la prima vendita di front-end e con quale investimento per cliente, qual è la vendita media per cliente o per quanto tempo riesci a mantenerlo tale, quante azioni di re-selling riesci a sviluppare prima che il cliente ti abbandoni.

Questi sono solo alcuni esempi di KPI che puoi raccogliere utilizzando strumenti relativamente semplici.

Non mi va molto l’idea di ragionare sulla dicitura didattica, ci sono fonti più autorevoli.

Preferisco ragionare insieme a te sul perché avere delle KPI, quindi definirle prima di muovere qualsiasi azione “strategica” on o off line, non è solo importante ma è necessario e fondamentale.

Si può fare pubblicità o marketing senza KPI?
Vediamo se riesco a rendere l’idea…
NO.

In realtà dovresti avere degli indicatori di performance per ogni area della tua aziende.

  • Dati misurabili sulle prestazioni delle risorse umane.
  • Dati misurabili sulle vendite, rapportate ai mesi precedenti, agli anni precedenti e previsioni credibili sul futuro per poter programmare il lavoro e gli investimenti
  • Dati misurabili sul marketing e sul rientro pubblicitario.

È ovvio che per elaborare e leggere correttamente i KPI (in italiano ICP) sarebbe bene avvalersi del supporto di un analista specializzato. Ma non è obbligatorio, quantomeno non se saprai svilupparne di semplici e utilizzare gli strumenti corretti per memorizzarli e rileggerli poi.

Noi ad esempio non disponiamo di un analista in staff.
Eppure sappiamo quantificare in termini numerici l’efficacia di ogni campagna che sviluppiamo per i nostri clienti.
Per molti indicatori utilizziamo un software che gestisce tutte le informazioni e ci offre in tempo reali i dati già a confronto.
È quello che fanno molti alberghi, ristoranti, saloni di bellezza.

Se non disponi di un software, anche excel è un ottimo strumento per tenere traccia dei dati.

QUALI SONO I KPI

Ne esistono tantissimi. Se ne possono sviluppare tantissimi. Se messi in relazione tra loro ti offrono un quadro credibile sul perché a fine anno non ti rimane un centesimo per fare i regali di natale ai collaboratori.
Ci sono indicator di costo, di servizio, di qualità.

Naturalmente i KPI hanno nomi fighissimi che tengono a debita distanza i profani. EVA, NOPAT, Time to market, CPM, Life time value, CPC, CTR, conversation rate….
Impossibile ricordarli tutti.

Quello che principalmente ci interessa è valutare il lavoro pubblicitario attraverso indicatori di volume, dunque dati numerici che possano rivelarci quanto è stata efficace una campagna di outbound marketing, o quanti prospect ha generato un funnel, o l’engagement rispetto ad un Contest o qualsiasi altra attività di marketing.

I social media che offrono alle aziende la possibilità di realizzare Ads campaign ad esempio, come Facebook, Twitter o LinkedIn, forniscono delle KPI proprio per consentire all’inserzionista di valutare se quella campagna è stata efficace o ha permesso di raggiungere lo scopo desiderato.

CASO REALE

Pochi mesi fa un’azienda ci ha contatti perché aveva notato un calo considerevole nel numero di preventivi emessi nell’anno in corso rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente.
Ad aggravare la situazione, all’interno di questo numero, i preventivi confermati erano inferiori in percentuale rispetto a quelli dell’anno prima.

Inoltre rilevava che per l’anno successivo avrebbe avuto un tasso di occupazione inferiore rispetto a quello dell’anno in corso.

Ci siamo resi velocemente conto che a parità di servizio reso, con un aumento nella qualità e nella quantità di alcuni servizi - attestato da recensioni e feedback eccezionali - il problema non poteva essere il prodotto, ma la capacità del brand di raggiungere i potenziali clienti e trasformarli poi in clienti.

Era necessario agire su 3 fronti:

  • Miglioramento dell’efficacia nella consulenza e nella vendita rispetto ai prospect già acquisiti, attraverso analisi e formazione one-to-one sul personale addetto alla vendita.
  • Aumento di conversione da utenti - tantissimi stando ai dati social - a lead attraverso la creazione di un funnel e la realizzazione di un magnet di altissimo valore percepito.
  • Strategia di Direct marketing sui lead per trasformarli in prospect, attraverso la realizzazione di un’attività esperenziale ad alto impatto emotivo.

Il risultato? Abbiamo generato circa 70 nuovi prospect in meno di 50 giorni con un costo medio per prospect tale che l'intero investimento pubblicitario sarebbe coperto dall'esito positivo di appena 2 consulenze, stando al valore medio di un preventivo e al ricavo medio per preventivo.

Misurare le performance di un’azione di marketing è fondamentale per capire se uno strumento funziona oppure mangia inutilmente i tuoi soldi.


Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.



bbadv-team-job-marketing

Tutto è vendita. Tutto è Marketing

Tutto è vendita. Tutto è Marketing

Con il termine Marketing intendiamo tutte quelle azioni da intraprendere per gestire le relazioni con il mercato e facilitare la commercializzazione di beni e servizi. È solo questo?

La firma della tua mail, come rispondi al telefono, il tempo che dedichi ai clienti, la risposta data di fretta, i contenuti dei tuoi canali web, i profili social, le cose che condividi e gli ideali che esprimi attraverso le tue azioni pubbliche.
Tutto è vendita.
Per questo non è necessario che ogni cosa che fai contenga una chiamata all’azione di acquisto.

Ma…c’è un “ma”

Se la tua comunicazione fosse un continuum di spot pubblicitari, se ogni tua frase si concludesse con un “chiama subito” o “approfitta dell’offerta” o ancora “contattaci per un preventivo”, rimarresti in poco tempo completamente solo.
Nessuno vuole trascorrere il suo tempo con chi cerca continuamente di vendere e promuovere.

Vendere è un’attività complessa e stratificata.

La trattativa è un momento specifico della vendita, non l’ingrediente onnipresente.

Impara ad usare al meglio il marketing per migliorare la vendita.

COSA SIGNIFICA DAVVERO MARKETING

Il marketing ha come scopo quello di individuare i bisogni umani individuali e sociali.
Attraverso questa analisi potrà poi identificare i vantaggi che il prodotto offre all’uomo, che problemi risolve o che obiettivi aiuta a raggiungere.

In ultima analisi potrà elaborare i modi migliori per comunicare le prerogative del prodotto/servizio per “educare” i possibili clienti e aumentare il loro grado di consapevolezza rispetto all’utilità del prodotto.

Inutile sarebbe vendere cappotti in spiaggia ad Agosto.

Il marketing ha proprio il compito di capire cosa serve a chi e quando, con quale urgenza e intensità, attraverso quali canali è più efficace elencare le caratteristiche e i vantaggi offerti.

LE PERCEZIONI

“Nel marketing le percezioni sono più importanti della realtà, perché influenzano il comportamento d’acquisto dei consumatori”.

Questa frase di Philip Kotler  (se non sai chi sia clicca qui) indica chiaramente quanto sia importante creare un immagine intorno al brand così che le persone inizino ad apprezzare il prodotto per ciò che percepisce dalla comunicazione generale prima ancora di acquistarlo.
Slogan, contenuti social, recensioni, packaging. Ogni cosa concorre a migliorare le percezioni del consumatore.

I CONTENUTI

Per questo un buon brand deve produrre contenuti diversi per raggiungere l’obiettivo finale, la vendita appunto.

  1. Contenuti di intrattenimento o per usare un termine tecnico… di cazzeggio.
  2. Contenuti acchiappa reach, ovvero contenuti leggeri ma condivisibili “senza impegno”, come aforismi, citazioni o accade oggi.
  3. Contenuti di informazione, di approfondimento rispetto a temi affini al prodotto e quindi alle esigenze del lead.

Le persone usano il web con leggerezza, vogliono contenuti leggeri da condividere con i propri amici.
Alcuni usano il web per saperne di più riguardo a qualcosa.
Approfondisci per loro.
La restante parte desidera comprare (preferibilmente da chi gli ha donato qualcosa prima). Vendi.

COME I CONTENUTI GENERANO CLIENTI

I contenuti hanno lo scopo di generare nuovi contatti prima, mantenere l’attenzione al prodotto in un secondo momento (puoi approfondire l’argomento leggendo l’articolo che parla di Inbound Marketing Strategy).
Una volta generato un lead, ovvero un utente che in qualche misura ha compiuto un gesto di interesse verso il brand (mi piace, condivisione, commento, visita al sito…) è importante pianificare un sistema di “nutrimento”, ovvero la diffusione di contenuti utili e spendibili che nutrano il nuovo rapporto tra il brand e il lead.
Fiducia, gratitudine, divertimento, emozione sono gli ingredienti più efficaci per “riscaldare” il lead e trasformarlo in un prospect, ovvero un utente che mostri palesemente interesse verso il prodotto e ne faccia esplicita richiesta (preventivo on-line, richiesta appuntamento o consulenza).

A questo punto tutte le qualità dell’azienda devono venir fuori per trasformare il prospect in cliente.
Ricordi tutti gli elementi citati all’inizio dell’articolo?
Ogni conversazione, mail, messaggio, automazione, tempo di risposta, concorre alla vendita e ad allungare la “vita” del cliente.
Un cliente molto soddisfatto è un cliente che tornerà ad acquistare presto o tardi.

Tutto è Vendita. Tutto è Marketing

Adesso però sai che non ha alcun senso “sparare” promozioni sulla folla.
È più produttivo e – credimi – meno faticoso identificare pubblico affine e interessato e “accompagnarlo” alla cassa quando sarà pronto per acquistare.

Perché se il tuo prodotto è davvero di qualità, utile, risolutivo, allora prima o poi qualcuno ne avrà davvero bisogno.
Deve solo sapere che ci sei e sei la prima scelta possibile.

Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.


bbadv-articolo-instagram-boot

Instagram (finalmente) fa pulizia. Caccia ai falsi like

Instagram (finalmente) fa pulizia. Addio falsi like

Caccia ai like ottenuti con i BOT per creare fake influencer

Ho aperto il mio profilo Instagram nella primavera del 2012.

Eravamo agli esordi del social nato da un paio di anni appena.
Lo stream era ricco di fotografie meravigliose che – ahimè – ai tempi non potevo apprezzare e oggi un po’ rimpiango.
Instagram non apparteneva ancora all’universo Facebook ed era luogo di ritrovo di fotografi e professionisti dell’immagine.
Gli utenti lo utilizzavano per generare portfolio e promuovere le proprie opere.

Iniziai ad utilizzare il mio Instagram come un raccoglitore di scarsa qualità, con foto mascherate da filtri d’ogni tipo.

Un po’ come una donna attempata e non troppo affascinante che tenta attraverso il make up di apparire bella e seducente.
Così erano le mie foto. Ma in fondo lo erano quelle di tutti gli utenti che tra il 2012 e gli anni a seguire cominciarono a popolare il social.

Niente selfie, niente storie demenziali, niente foto allo specchio del bagno.

Io appartengo a quell’ondata di utenti che ha sporcato e reso banale uno strumento davvero ben fatto.

Si, mi batto il petto e riconosco le mie colpe.

Instagram 2.0

Poi Mark Zuckerberg si accorse di quell’app che faceva trend e tirava orde di ragazzini indemoniati, desiderosi di pubblicare selfie compulsivamente.

Più Instagram cresceva più i professionisti della fotografia lo abbandonavano, più me ne disinnnamoravo.
Avevo persino acquistato un libro per comprendere come avere successo con Instagram.
La logica degli hashtag e il principio di generosità che vi sta(va) alla base.

Più imparavo più mi rendevo conto che il social network delle foto non era più ciò che stavo studiando. Probabilmente non era più ciò che chi lo aveva creato avrebbe voluto.

Una giungla di contenuti di scarsissima qualità, una difficoltà quasi insormontabile a costruire una community di follower seria e interessata, l’orda di di hashtag dispensati senza logica su ogni foto.
Difficile fare nurturing, difficile generare prospect profilati, quasi impossibile mantenerli e convertire.

Foto di gattini con hashtag inerenti al marketing, seni scoperti con citazioni di saggezza orientale e una montagna di mi piace.
L’ascesa del porno e l’avvento di storie semplicemente demenziali mi hanno aperto gli occhi.

Instagram con le sue logiche non era il luogo giusto per me e i miei clienti. Quantomeno non il luogo ideale per avere il massimo col minor sforzo possibile.

Ho deciso per questo di limitarmi ad un uso personale – e senza eccessi – dello strumento.
Almeno fino a che le cose non fossero cambiate.

LE COSE (FORSE) STANNO CAMBIANDO

È fresca la notizia, freschissima.

Grazie alla revisione in atto sull’algoritmo, il team di Instagram sta facendo epurazione in grande stile.

Via like commenti e follower ottenuti attraverso bot e app esterne o peggio ancora Vending machine.

Già qualche mese fa il social era stato oggetto di profonda pulizia da profili fake, mentre è di qualche anno fa l’iniziativa di “oscurare” i contenuti che riportassero hashtag offensivi, razzisti, esplicitamente sessuali o eccessivamente abusati al punto da renderli inutili.
Perchè se l’hashtag è il filo rosso che collega profili e contenuti affini ad un preciso argomento in tutto il network, il suo abuso rappresenta invece la non connessione, il caos. Ovvero il contrario di ciò che gli hashtag dovrebbero generare.

Attraverso un comunicato stampa, Instagram ha dichiarato guerra ai profili che hanno accresciuto la propria influenza e rete di follower attraverso l’uso di software di terze parti.
Senza contare le applicazioni che innescavano una vera e propria compravendita di follower (“segui 100 profili e a tua volta otterrai 10 follower reali” o ancora “come ottenere 1000 follower reali” sono slogan tipici di questi servizi).

In sostanza la battaglia è ai finti influencer, utenti che hanno acquisito migliaia di follower senza pubblicare contenuti interessanti né utili.
Un finto premio per finti meriti.

INFLUENCER MARKETING

La chiarezza rispetto alla reale influenza di un profilo è fondamentale per quelle aziende che su Instagram fanno marketing seriamente.

È giusto investire per ingaggiare influencer con migliaia o milioni di follower se la maggior parte di questi sono falsi o generati con un bot?

I ragazzi di oggi si affermano e alimentano la loro autostima in modo proporzionale ai like o ai follower che riescono ad ottenere. A qualunque costo, pur di apparire interessanti e di successo.

Sono tantissimi a delegare a terze parti la daily routine che dovrebbe essere ricca di relazioni umane, di input e feedback. Pre impostano il numero di like da mettere durante la giornata e quali profili seguire per recapitare una notifica all’utente (che a sua volta dovrebbe ricambiare il gesto) e poi, a distanza di qualche giorno, revocare l’azione.
Dei veri e propri robot che svolgono il lavoro al posto dell’utente reale.

Molti utenti tendono a spendere soldi in app di terze parti per acquistare follower, likes, commenti e visualizzazioni, per mostrare ai propri follower e a chi sta pensando di diventarlo, l’influenza che hanno sul social network.

Mostrare i muscoli, anche se sono di cartone.
Ho reso l’idea?
È la nuova riprova sociale, quella effimera sensazione di notorietà, anche se non corrisponde ad una reale cerchia di seguaci.

Nulla di grave, se non fosse che sull’influencer Marketing piccole e grandi aziende costruiscono intere strategie di marketing.

Era arrivato il momento di mettere un po’ di ordine a questa giungla.

BYE BYE FAKE INFLUENCER

La stessa Chiara Ferragni, Regina degli influencer (hai letto il nostro articolo su Chiara?), è stata recentemente al centro di un social gossip, promosso da Rolling Stone (leggi qui l’articolo) che aveva dimostrato che parte dei suoi follower – circa il 35% – fossero profili di dubbia originalità. Nel loro articolo c’è un’interessantissima analisi su come i nuovi vip acquistino followers con pochi dollari, per aumentare (lo fanno davvero?) la propria reputazione online.

Non che funzioni, ma vedere un vip con molti follower rafforza la leadership del personaggio.

Ciò che è certo è che l’attività di pulizia porterà qualche migliaio di sedicenti influencer a ritrovarsi con un ingente numero di follower inferiore e molto probabilmente a perdere alcuni degli sponsor che erano riusciti ad ottenere.

Sono tanti gli influencer che ottengono prodotti premio, servizi da testare, omaggi e tanti altri benefits in cambio di un po’ di visbilità allo sponsor nella propria bacheca.

Influencer e Ambassador del weekend hanno le ore contate, se l’algoritmo farà il suo dovere.

“Sin dai primi giorni di Instagram , abbiamo rilevato automaticamente e rimosso account falsi per proteggere la nostra community.
L’aggiornamento di oggi è solo un altro passo per mantenere Instagram una vivace comunità in cui le persone si connettono e condividono in modo autentico. Nelle prossime settimane avremo più aggiornamenti su ulteriori misure che stiamo prendendo per affrontare attività non autentiche su Instagram.”

Mi auguro che le promesse vengano mantenute.

Nazareno Brancatello

Sono uno dei BBrothers.
La mia giornata si (s)compone tra letture, strategie digitali, test, scrittura, social media e slide.
Sono un sognatore con i piedi per terra. Mi impegno per essere un punto di riferimento credibile per il mio staff e i miei clienti.
Mi occupo principalmente di copywriting e di tutte le attività editoriali del team.
Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo sul marketing digitale che metto a disposizione dei miei clienti.


bbadv-pomodori-siciliani-logo-barilla

Dolce come lo scivolone Barilla - Quando il target non è un luogo comune

Dolce come lo scivolone Barilla
Quando il target non è un luogo comune

In molti dei nostri articoli potresti trovare riferimenti sull’importanza di definire un target per qualsiasi azione di marketing.
Non è una fissa tipica di bbadv, sia chiaro.
È il mantra inespresso di qualsiasi marketer e addetto ai lavori pubblicitari.

Sembrerà un’affermazione banale ma non puoi comunicare qualcosa se non sai a chi.
Se la tua promozione avesse per destinatario il turista tedesco, sono certo avresti cura di tradurre in lingua il claim della tua pubblicità. Giusto?

Giusto!

È proprio sulla lingua che Barilla è caduta – a mio modestissimo avviso – seppur nel caso specifico il problema non sia l’italiano ma… il siciliano!

Il siciliano è una bruttissima bestia! Sia chiaro, lo dico da siciliano doc.

PROBLEMI DI LINGUA

Conosci quella storiella degli eschimesi riguardo a quanti termini utilizzino per indicare la neve?

È una mezza leggenda metropolitana – mezza perché ha un fondo di verità ma nelle aule viene ingigantita per consolidare le argomentazioni – ma fa al caso nostro e te ne offrirò un riassunto veloce.

L’eschimese è una lingua che in realtà è il risultato di più dialetti, Inuit e Yupik tra i i principali. È l’idioma di popolazioni presenti in Alaska, Canada, Groenlandia e Siberia, territori anche molto distanti tra loro e influenzati in modi diversi.

Il risultato è che in diverse sfaccettature, l’eschimese preveda decine (qualcuno dice centinaia) di modi diversi di definire la neve, che in italiano invece si indica con un solo termine.
Neve, appunto.

Ciò che per noi è neve, per gli eschimese è qanik, ovvero neve nell’aria, o aput, quindi neve già caduta sul terreno. Da queste due semplici radici si ricavano parole diverse, come qanipalaat (neve soffice a fiocchi nell’aria) o apusiniq (cumulo di neve sul terreno)

Non si può utilizzare un termine al posto di un altro. Se vuoi che un eschimese ti comprenda devi tenere conto di queste sfumature.

QUALCUNO LO DICA A BARILLA!

bbadv-slogan-barilla

L’errore grossolano di Barilla non è diverso.

Per una colorata (rimanendo in tema) campagna di branding, la nota marca Italiana ha deciso in Sicilia – rispettivamente Palermo, Catania e Messina – di far leva su un linguaggio “autoctono” e su stereotipi della “saudade sicula”.

La scelta di un copy così territoriale va ricercato nel tentativo di avvicinarsi al pubblico target, di far passare il prodotto Barilla come un made in Italy 100% che racchiude i valori, le tradizioni e le bellezze del Bel Paese e per questo da preferire ad altri competitor.

In questa sede sorvoleremo sul fatto che proprio Barilla è stata ed è tutt’ora al centro di una fastidiosa bagarre riguardo al fatto che il grano utilizzato per pasta e preparati non sia italiano al 100% ma mescolato ad altri grani provenienti da paesi appartenenti e non all’Unione Europea.

Insomma, non proprio una politica nazionalistica.

Il claim per le 3 città siciliane ha la stessa radice, “dolce come….”.

La declinazione cambia per ognuna delle tre città.

Come i colori della Vucciria” nel caso di Palermo, “come la mattina del 5 Febbraio” cara ai catanesi perché festa di Sant’Agata patrona, “come rivedere casa al mare” per i messinesi, spesso costretti a trascorrere da pendolari molte ore sul traghetto.

Il claim in tutti i casi è stato disposto su un letto di pomodorini datterino (da siciliano mi auguro siano di Pachino) e un bel barattolone di salsa Barilla.

“Che c’è di male” starai pensando…?

Se sei di Milano – come ci sei finito nel nostro blog? – assolutamente nulla.
Se invece hai sangue arabo-normanno nelle vene sai benissimo che la frase sviluppata non ha davvero alcun senso.

ANALIZZANDO PER BENE…

Nella lingua italiana l’aggettivo dolce si attribuisce a tutti i prodotti alimentari che contengano zucchero, miele o qualsiasi altro ingrediente conferisca dolcezza, e per estensioni i dessert in genere.

Dolce può essere un pomodorino datterino, ma di sicuro non un mercato storico o una data del calendario o un’immagine evocativa.

Se stai pensando che è una semplice sinestesia, puoi fermarti e non leggere oltre. Rimane una sinestesia non riuscita, proprio perchè in Sicilia l’uso del termine assume altri significati.

La spiegazione di un uso scorretto del termine va ricercata nella licenza poetica che il siciliano avrebbe potuto offrire, dialetto che attribuisce a “duci” significati più numerosi che vanno ricercati anche nell’ambito della bellezza e dell’estetica.

Un sorriso può essere duci, una persona o un cucciolo, un comportamento particolarmente affabile e – perché no – un colore particolarmente gradevole.

Tuttavia nessun palermitano – sui catanesi non posso garantire – utilizzerebbe duci per descrivere un mercato popolare.

  • Perché utilizzare il termine in italiano che è di per sé un grossolano errore.
  • Se l’origine della scelta era la forma dialettale duci, perché “italianizzarla” privandola appunto di quelle sfumature tipiche del dialetto isolano, sfumature che molto probabilmente avevano dato origine allo slogan stesso?
  • Se invece l’intenzione era quella di dar vita ad una figura retorica, come mai proprio in Sicilia, terra in cui una frase del genere non avrebbe mai potuto funzionare per via dell’influenza dialettale?

Avremmo potuto accettare la sinestesia se il claim fosse stato uno e univoco per l’intero territorio nazionale. Il fatto che lo slogan sia stato utilizzato solo sull’isola, lascia poco spazio al dubbio.

Quella frase è un tentativo maldestro di far credere a noi siciliani che dentro quel barattolo di sugo ci fosse un po’ della nostra terra.

DOLCE COME LE MIE CONCLUSIONI

Avrei davvero voluto essere presente al brainstorming creativo che ha dato origine ad una scelta così azzardata e, ahimè, scellerata.
Dubito che in quella sala riunione fosse presente un palermitano, o un catanese a guidare i colleghi in una considerazione così banale eppure così spinosa.

Si potrebbe dire che discutere della validità della pubblicità sia a sua volta pubblicità.
Bene o male purché se ne parli.

Touchè.

La polemica intorno ad un messaggio può essere una cassa di risonanza eccezionale, ancor più se accesa ed aspra.

Ce lo insegnano Pandora con il discusso claim di San Valentino, o ancora Buondì Motta che deve il suo successo social proprio agli haters che ne sono diventati ironici testimonials.

bbadv-epic-fail-pandora
bbadv-epic-fail-buondì-motta

In ogni caso ditelo ai signori di Barilla.

La Vucciria di Palermo può essere chiassosa, è certamente affascinante, può essere definita storica o pittoresca.
Un turista potrebbe definirla “wunderbar”, ma mai e dico mai sentirete dire che è dolce né tantomeno “duci”.

Dalle nostre parti quando un pomodoro viene calpestato si dice che sia stato “scafazzato”.

Un termine onomatopeico che utilizziamo anche per connotare un’idea finita male, uno scivolone, una figuraccia in pubblico.

Insomma, Barilla a questo giro in Sicilia l’hai decisamente “scafazzata”, e non per colpa dei pomodori!